Credo che il reportage, inteso come applicazione nobile della pratica fotografica, sia pressoché scomparso ormai da quasi tre decenni, dalla guerra dei Balcani quando Peter Arnett trasmetteva in diretta immagini del conflitto al mondo intero. Da allora, i fotoreporter hanno interpretato più che raccontato la quotidianità, gli eventi, le storie, producendo immagini, in questo senso, che sembrano appartenere alla stage photography più che al reportage. Alcune volte hanno addirittura stravolto il mondo, in questo certamente aiutati dall’avvento del digitale che permette di “modificare” a proprio piacimento la realtà. Nel nostro caso, la violenza della realtà è subito parsa così forte e immediata che, al contrario, ha richiesto un silenzio e una riflessione profonda prima di poterla affrontare e riportare. Il risultato è il racconto di un’esperienza che non solo ha di gran lunga superato le aspettative che il progetto missione si era proposto ma, soprattutto, ha cambiato il modo di vedere e sentire questo dramma così vicino, per quanto noi lo si voglia tenere lontano dalle nostre vite.
Filippo Maggia, direttore Fondazione Fotografia e curatore del progetto
I fotografi: «Noi, dentro l’esodo»
Antonio Biasiucci - The Dream Sono partito per Kios con molte perplessità. Ero scettico per quanto riguarda la possibilità di realizzare un buon lavoro in un campo profughi dove sono concentrate più persone provenienti da vari paesi con differenze culturali molto diverse. È la stata la loro accoglienza a permettermi di entrare nei loro mondi e cercare una sacralità anche in questo luogo dove sembra estinta, sopraffatta da esigenze pratiche di sopravvivenza e dalla precarietà quotidiana. Gli incontri con persone straordinarie mi hanno permesso di lavorare bene e realizzare un lavoro sul "migrante". Nel polittico in mostra sono presenti immagini di mani, piedi e volti con gli occhi chiusi dei profughi. Ognuno di questi tre soggetti esprime metafore legate allo spostamento e alla migrazione. Nell'opera l’individuo si denuda mostrando allo straniero la parte di sè più vulnerabile e indifesa [caption id="attachment_85235" align="aligncenter" width="945"] Antonio Biasiucci, particolare dell’opera “The Dream”, Grecia, 2016[/caption] Antonio Fortugno - Kwj Kos Coo Co0 Il mio lavoro a Kos si realizza attraverso alcuni momenti o passaggi. Innanzitutto c’è un lavoro di progettazione, una ricerca fatta per prepararmi al viaggio e al reportage fotografico: si tratta della mutazione ortografica del nome Kos da Coo a Co0, formula chimica del monossido di cobalto, materiale con cui ho realizzato il video che mostra la progressiva dissolvenza della superficie dell’isola. È dall’azione poetica di questo breve video che ha origine il tema portante di questo lavoro, incentrato sul viaggio come ricordo: l’azione del tempo sulla memoria, la mutazione della forma nel tempo, la forma come identità, l’identità come memoria. Sono questi i segni distintivi che attraversano i passaggi del lavoro fotografico compiuto sull’isola, segni che ho disposto in parallelo per sinonimia o per antinomia. Il tema della presenza-assenza è evocato dall’acqua, elemento vitale per eccellenza, che si ritrova nelle immagini della piscina dell’ex Hotel Captain Elias, struttura alberghiera abbandonata che è stata luogo temporaneo di accoglienza dei profughi giunti dal mare, il luogo d’acqua per antonomasia, fonte di vita o di morte per i naufraghi. [caption id="attachment_85200" align="aligncenter" width="1024"] Antonio Fortugno, dalla serie “CoO”, Grecia, 2016[/caption] [caption id="attachment_85201" align="aligncenter" width="1024"] Antonio Fortugno, dalla serie “CoO”, Grecia, 2016[/caption] Angelo Iannone – fotografo (inviato a Samos) L’emergenza dei profughi porta segni tangibili, imponenti, nella vita quotidiana della popolazione locale, che nonostante tutto continua ad andare avanti, non spinta dalla non curanza ma dal desiderio di superare la situazione. Ho sentito la necessità di non mostrare quello che quotidianamente i media spettacolarizzano, ma di lavorare in silenzio. Dopo aver vissuto un’esperienza di tale portata, sono diventato molto più critico nella ricerca e nella fase preparatoria di un progetto, sia nei confronti di me stesso, sia nei confronti delle fonti. [caption id="attachment_85202" align="aligncenter" width="988"] Angelo Iannone, dalla serie “Nulla che già non sappiate”, Grecia, 2016[/caption] [caption id="attachment_85203" align="aligncenter" width="933"] Angelo Iannone, dalla serie “Nulla che già non sappiate”, Grecia, 2016[/caption] Filippo Luini – fotografo (inviato a Leros, Agathonissi, Pserimos) Un momento significativo è stato l’incontro con una famiglia di rifugiati di Aleppo. Raccontandomi il loro viaggio, il padre mi ha mostrato una fotografia. Ritraeva la moglie e la figlia adolescente sedute su un pullman. Di nascosto sollevavano i burka che erano state costrette ad indossare per attraversare un territorio occupato al tempo dall’Isis. Sorridevano. Le memorie dei telefonini dei migranti sono colme di fotografie che raccontano la loro storia meglio di molti reportage. Nonostante le disgrazie, spesso appaiono sorridenti, per l’abitudine di mostrarsi felici quando si scatta una fotografia. A posteriori credo che la fotografia delle due donne mi sia stata di ispirazione, per il contrasto tra i loro volti e la drammaticità del contesto. Il mio progetto fotografico è nato infatti dalla condivisione di un momento ludico con un gruppo di giovani rifugiati, a cui ho chiesto di rivivere, mettendoli in scena, dei momenti del loro tragitto fin qui. Le immagini restituiscono l’idea di un percorso comune, laddove nella realtà i ragazzi viaggiavano da soli. Si può dire che il viaggio sia il frutto di una memoria collettiva, ed esiste solo in forma di racconto per immagini. Il filtro del gioco mi ha permesso di scattare delle fotografie in cui la durezza della situazione appare per un istante sospesa. [caption id="attachment_85206" align="aligncenter" width="1024"] Filippo Luini, dalla serie “The young men say hello”, Grecia, 2016[/caption] [caption id="attachment_85204" align="aligncenter" width="1024"] Filippo Luini, dalla serie “The young men say hello”, Grecia, 2016[/caption] Francesco Mammarella – fotografo (inviato a Leros, Agathonissi, Pserimos) La mostra Lying in between è nel suo insieme un evento incredibile, sia per la varietà degli aspetti formali sia per quelli contenutistici. Resterà sicuramente impressa nella mente dei visitatori. Mi sento orgoglioso di farne parte. Arrivare a vedere coi propri occhi questo dramma storico mi ha portato a comprendere più approfonditamente la parola “esodo”. Scorgere migliaia di individui mettersi in viaggio per moltissimo tempo con pochi oggetti personali e tanta voglia di una vita normale ti mette con le spalle al muro: sei costretto a guardare i dolori della vita. Non volevo mostrare direttamente con le mie fotografie il dolore e le sofferenze dei profughi. Talvolta percepisco l’uso massiccio di queste immagini scioccanti come un atteggiamento inumano nei confronti di chi li vive, che esula dal nobile concetto di denuncia e si concretizza più sotto un aspetto estetizzante. Ho cercato di inserire il concetto di “isola” e “isolamento” nel mio lavoro e ragionando mi sono accorto che molto spesso è l’uomo che ha necessità di creare delle distanze. [caption id="attachment_85207" align="aligncenter" width="1024"] Francesco Mammarella, dalla serie “Paura Secondo Grado”, Grecia, 2016[/caption] [caption id="attachment_85208" align="aligncenter" width="1024"] Francesco Mammarella, dalla serie “Paura Secondo Grado”, Grecia, 2016[/caption] Simone Mizzotti – fotografo (Idomeni) Far parte di questa missione è stato motivo di orgoglio e soddisfazione: abbiamo potuto vivere e documentare in prima persona un'esperienza umana unica. Confrontarsi con queste persone è stato molto importante: prima abbiamo ascoltato e capito cosa hanno vissuto per arrivare alle porte dell'Europa. e poi ci siamo resi conto di essere inermi di fronte a una tale catastrofe umanitaria. Dopo questa esperienza non è cambiato molto del mio linguaggio fotografico, ma è cambiata la mia voglia di poter fare di più per persone che hanno veramente bisogno di aiuto. [caption id="attachment_85209" align="aligncenter" width="995"] Simone Mizzotti, dalla serie “Camp Inn ***” , Grecia, 2016[/caption] [caption id="attachment_85210" align="aligncenter" width="933"] Simone Mizzotti, Installazione “Fortezze”, 25 fotografie, Grecia, 2016[/caption] Francesco Radino Come tutti noi sono stato orgoglioso di far parte della missione, progetto pubblico, e sottolineo pubblico, dedicato all’emergenza profughi. Questo ci ha permesso di confrontarci in prima linea con uno dei problemi più rilevanti e dolorosi del nostro tempo e trovare una chiave di lettura per mettere in scena un racconto che non fosse ripetitivo o banale è stata la nostra sfida. Ho sempre cercato di evitare linguaggi toppo diretti in cui gli aspetti etici e di testimonianza civile prendessero il sopravvento . La bulimia di immagini caratteristica del nostro tempo ha finito per anestetizzarci e anche le immagini più drammatiche che ci arrivano in tempo reale da ogni parte del mondo non riescono più a scuotere le nostre coscienze per più di un’attimo. Da qui la necessità di trovare altri linguaggi capaci di dare forma e sostanza alla nostra testimonianza. Nel lavoro “No news, bad news” ho tentato di mettere in relazione il dramma dei profughi con la bellezza dei luoghi dove "Dolcezza e asprezza si intrecciano e si confondono in ogni piega di questo viaggio, phatos e thanatos affiorano dalla trama dell’esperienza visiva come nei versi ossimorici del Petrarca “O viva morte o dilectoso, male”. Tessere di un paesaggio instabile dove concetti antitetici si mostrano allo sguardo indissolubilmente legati.” (1) Nel lavoro “una faccia una razza” ho preso spunto dal motto tradizionale d’accoglienza del popolo greco per mettere in scena una gallery dove i volti dei migranti dialogassero con quelli degli abitanti di Lesbos, dei volontari delle Onlus e con le immagini senza tempo dell’iconografia religiosa e civile del passato. Questa esperienza naturalmente mi ha segnato più di altre e mi ha permesso di dare un senso al mio lavoro di operatore dell’immagine nella consapevolezza, per usare una nota metafora, di essere allo stesso tempo freccia e bersaglio. (1) dal testo introduttivo al mio lavoro in catalogo [caption id="attachment_85211" align="aligncenter" width="1024"] Francesco Radino, dalla serie “No news, bad news”, Grecia, 2016[/caption] [caption id="attachment_85212" align="aligncenter" width="800"] Francesco Radino, dalla serie “Una faccia una razza”, Grecia, 2016[/caption]Fondazione Fotografia presenta al Foro Boario di Modena la mostra Lying in Between. Hellas 2016 (dal 15 settembre all’8 gennaio 2017), con il patrocinio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) e dell’Ambasciata di Grecia a Roma.
Il percorso, a cura del direttore Filippo Maggia, espone le opere prodotte in occasione di una missione fotografica in Grecia svoltasi su iniziativa di Fondazione Fotografia nei mesi di maggio e giugno 2016.
Alla missione hanno preso parte sette fotografi italiani caratterizzati da sensibilità e stili differenti: Antonio Biasiucci, Antonio Fortugno, Angelo Iannone, Filippo Luini, Francesco Mammarella, Simone Mizzotti e Francesco Radino.
Ad affiancare le loro opere e a completare l’allestimento della mostra ci sarà inoltre un’installazione video a tre canali, realizzata e prodotta da Fondazione Fotografia.
Left è media partner dell’iniziativa. Ecco la gallery con alcune delle foto esposte a Modena.
Credo che il reportage, inteso come applicazione nobile della pratica fotografica, sia pressoché scomparso ormai da quasi tre decenni, dalla guerra dei Balcani quando Peter Arnett trasmetteva in diretta immagini del conflitto al mondo intero. Da allora, i fotoreporter hanno interpretato più che raccontato la quotidianità, gli eventi, le storie, producendo immagini, in questo senso, che sembrano appartenere alla stage photography più che al reportage. Alcune volte hanno addirittura stravolto il mondo, in questo certamente aiutati dall’avvento del digitale che permette di “modificare” a proprio piacimento la realtà.
Nel nostro caso, la violenza della realtà è subito parsa così forte e immediata che, al contrario, ha richiesto un silenzio e una riflessione profonda prima di poterla affrontare e riportare. Il risultato è il racconto di un’esperienza che non solo ha di gran lunga superato le aspettative che il progetto missione si era proposto ma, soprattutto, ha cambiato il modo di vedere e sentire questo dramma così vicino, per quanto noi lo si voglia tenere lontano dalle nostre vite.
Filippo Maggia, direttore
Fondazione Fotografia
e curatore del progetto
I fotografi: «Noi, dentro l’esodo»
Antonio Biasiucci – The Dream
Sono partito per Kios con molte perplessità. Ero scettico per quanto riguarda la possibilità di realizzare un buon lavoro in un campo profughi dove sono concentrate più persone provenienti da vari paesi con differenze culturali molto diverse. È la stata la loro accoglienza a permettermi di entrare nei loro mondi e cercare una sacralità anche in questo luogo dove sembra estinta, sopraffatta da esigenze pratiche di sopravvivenza e dalla precarietà quotidiana. Gli incontri con persone straordinarie mi hanno permesso di lavorare bene e realizzare un lavoro sul “migrante”. Nel polittico in mostra sono presenti immagini di mani, piedi e volti con gli occhi chiusi dei profughi. Ognuno di questi tre soggetti esprime metafore legate allo spostamento e alla migrazione. Nell’opera l’individuo si denuda mostrando allo straniero la parte di sè più vulnerabile e indifesa
Antonio Fortugno – Kwj Kos Coo Co0
Il mio lavoro a Kos si realizza attraverso alcuni momenti o passaggi. Innanzitutto c’è un lavoro di progettazione, una ricerca fatta per prepararmi al viaggio e al reportage fotografico: si tratta della mutazione ortografica del nome Kos da Coo a Co0, formula chimica del monossido di cobalto, materiale con cui ho realizzato il video che mostra la progressiva dissolvenza della superficie dell’isola. È dall’azione poetica di questo breve video che ha origine il tema portante di questo lavoro, incentrato sul viaggio come ricordo: l’azione del tempo sulla memoria, la mutazione della forma nel tempo, la forma come identità, l’identità come memoria. Sono questi i segni distintivi che attraversano i passaggi del lavoro fotografico compiuto sull’isola, segni che ho disposto in parallelo per sinonimia o per antinomia.
Il tema della presenza-assenza è evocato dall’acqua, elemento vitale per eccellenza, che si ritrova nelle immagini della piscina dell’ex Hotel Captain Elias, struttura alberghiera abbandonata che è stata luogo temporaneo di accoglienza dei profughi giunti dal mare, il luogo d’acqua per antonomasia, fonte di vita o di morte per i naufraghi.
Angelo Iannone – fotografo (inviato a Samos)
L’emergenza dei profughi porta segni tangibili, imponenti, nella vita quotidiana della popolazione locale, che nonostante tutto continua ad andare avanti, non spinta dalla non curanza ma dal desiderio di superare la situazione.
Ho sentito la necessità di non mostrare quello che quotidianamente i media spettacolarizzano, ma di lavorare in silenzio. Dopo aver vissuto un’esperienza di tale portata, sono diventato molto più critico nella ricerca e nella fase preparatoria di un progetto, sia nei confronti di me stesso, sia nei confronti delle fonti.
Filippo Luini – fotografo (inviato a Leros, Agathonissi, Pserimos)
Un momento significativo è stato l’incontro con una famiglia di rifugiati di Aleppo. Raccontandomi il loro viaggio, il padre mi ha mostrato una fotografia. Ritraeva la moglie e la figlia adolescente sedute su un pullman. Di nascosto sollevavano i burka che erano state costrette ad indossare per attraversare un territorio occupato al tempo dall’Isis. Sorridevano.
Le memorie dei telefonini dei migranti sono colme di fotografie che raccontano la loro storia meglio di molti reportage. Nonostante le disgrazie, spesso appaiono sorridenti, per l’abitudine di mostrarsi felici quando si scatta una fotografia. A posteriori credo che la fotografia delle due donne mi sia stata di ispirazione, per il contrasto tra i loro volti e la drammaticità del contesto.
Il mio progetto fotografico è nato infatti dalla condivisione di un momento ludico con un gruppo di giovani rifugiati, a cui ho chiesto di rivivere, mettendoli in scena, dei momenti del loro tragitto fin qui. Le immagini restituiscono l’idea di un percorso comune, laddove nella realtà i ragazzi viaggiavano da soli. Si può dire che il viaggio sia il frutto di una memoria collettiva, ed esiste solo in forma di racconto per immagini. Il filtro del gioco mi ha permesso di scattare delle fotografie in cui la durezza della situazione appare per un istante sospesa.
Francesco Mammarella – fotografo (inviato a Leros, Agathonissi, Pserimos)
La mostra Lying in between è nel suo insieme un evento incredibile, sia per la varietà degli aspetti formali sia per quelli contenutistici. Resterà sicuramente impressa nella mente dei visitatori. Mi sento orgoglioso di farne parte.
Arrivare a vedere coi propri occhi questo dramma storico mi ha portato a comprendere più approfonditamente la parola “esodo”. Scorgere migliaia di individui mettersi in viaggio per moltissimo tempo con pochi oggetti personali e tanta voglia di una vita normale ti mette con le spalle al muro: sei costretto a guardare i dolori della vita. Non volevo mostrare direttamente con le mie fotografie il dolore e le sofferenze dei profughi. Talvolta percepisco l’uso massiccio di queste immagini scioccanti come un atteggiamento inumano nei confronti di chi li vive, che esula dal nobile concetto di denuncia e si concretizza più sotto un aspetto estetizzante. Ho cercato di inserire il concetto di “isola” e “isolamento” nel mio lavoro e ragionando mi sono accorto che molto spesso è l’uomo che ha necessità di creare delle distanze.
Simone Mizzotti – fotografo (Idomeni)
Far parte di questa missione è stato motivo di orgoglio e soddisfazione: abbiamo potuto vivere e documentare in prima persona un’esperienza umana unica.
Confrontarsi con queste persone è stato molto importante: prima abbiamo ascoltato e capito cosa hanno vissuto per arrivare alle porte dell’Europa. e poi ci siamo resi conto di essere inermi di fronte a una tale catastrofe umanitaria. Dopo questa esperienza non è cambiato molto del mio linguaggio fotografico, ma è cambiata la mia voglia di poter fare di più per persone che hanno veramente bisogno di aiuto.
Francesco Radino
Come tutti noi sono stato orgoglioso di far parte della missione, progetto pubblico, e sottolineo pubblico, dedicato all’emergenza profughi.
Questo ci ha permesso di confrontarci in prima linea con uno dei problemi più rilevanti e dolorosi del nostro tempo e trovare una chiave di lettura per mettere in scena un racconto che non fosse ripetitivo o banale è stata la nostra sfida.
Ho sempre cercato di evitare linguaggi toppo diretti in cui gli aspetti etici e di testimonianza civile prendessero il sopravvento .
La bulimia di immagini caratteristica del nostro tempo ha finito per anestetizzarci e anche le immagini più drammatiche che ci arrivano in tempo reale da ogni parte del mondo non riescono più a scuotere le nostre coscienze per più di un’attimo.
Da qui la necessità di trovare altri linguaggi capaci di dare forma e sostanza alla nostra testimonianza.
Nel lavoro “No news, bad news” ho tentato di mettere in relazione il dramma dei profughi con la bellezza dei luoghi dove “Dolcezza e asprezza si intrecciano e si confondono in ogni piega di questo viaggio, phatos e thanatos affiorano dalla trama dell’esperienza visiva come nei versi ossimorici del Petrarca “O viva morte o dilectoso, male”. Tessere di un paesaggio instabile dove concetti antitetici si mostrano allo sguardo indissolubilmente legati.” (1)
Nel lavoro “una faccia una razza” ho preso spunto dal motto tradizionale d’accoglienza del popolo greco per mettere in scena una gallery dove i volti dei migranti dialogassero con quelli degli abitanti di Lesbos, dei volontari delle Onlus e con le immagini senza tempo dell’iconografia religiosa e civile del passato.
Questa esperienza naturalmente mi ha segnato più di altre e mi ha permesso di dare un senso al mio lavoro di operatore dell’immagine nella consapevolezza, per usare una nota metafora, di essere allo stesso tempo freccia e bersaglio.
(1) dal testo introduttivo al mio lavoro in catalogo