I mezzi corazzati di Bashar al Assad hanno passato la linea del fronte di Aleppo, entrando per la prima volta in quattro anni nella parte della città controllata dai ribelli. La battaglia per la città siriana, insomma, è in una fase nella quale l’esercito regolare siriano, assieme alle milizie libanesi e iraniane, tenta la spallata finale. Il sostegno aereo russo continua e ieri, secondo le notizie che giungono dalla città, dovrebbe aver fatto 16 morti e circa 30 feriti. I ribelli sostengono di aver fermato l’avanzata e distrutto diversi mezzi blindati siriani. Intanto Mosca ha spedito in Siria dei sistemi di difesa anti-missile.
Tra bombe e accerchiamento, l’idea russa e siriana sembra essere quella di ridurre alla fame e alla sete i civili e i combattenti e annichilirli con una potenza di fuoco mai usata fino a oggi, nemmeno sulle devastate città siriane. I morti sono circa 300 da quando il cessate il fuoco è saltato. Poi c’è la sofferenza dei civili.
All’Onu, Francia e Spagna stanno mettendo assieme una risoluzione di condanna del regime che non andrà da nessuna parte a causa del già annunciato veto russo.
È in questo contesto di stallo diplomatico e relativa umiliazione, che gli Stati Uniti starebbero ragionando, scrive il Washington Post, sulla possibilità di colpire le infrastrutture militari della Siria di Assad. Oggi si riunisce un comitato di alto livello e nel weekend ci dovrebbe essere una riunione con Obama. Allo studio diverse opzioni: il tentativo di imporre una no fly zone sopra Aleppo, la possibilità di distruggere l’infrastruttura aerea del regime siriano. La volontà americana sarebbe quella di fermare l’avanzata su Aleppo, far pagare un costo ad Assad per le violazioni di ogni codice di guerra e costringerlo a tornare a un tavolo negoziale. La difficoltà di non avere un mandato Onu potrebbe venire aggirata conducendo raid – o sparando missili dalle navi – in maniera coperta. Anche questa è una ipotesi in discussione. Il sistema di difesa anti missile arrivato dalla RUssia serve anche a questo.
La verità è che, in una Washington presa dalla campagna elettorale, l’amministrazione ha paura a fare qualsiasi passo. Ma certo la situazione è grave e relativamente umiliante per gli Usa. La partita di immagine – se la vogliamo chiamare così – la sta stravincendo Putin e per i leader del mondo libero, come gli Usa chiamano definirsi, quella siriana è una macchia – come dovrebbe esserlo anche per l’Europa, a prescindere dalla prosopopea americana di pensarsi centro del mondo.
Nei giorni scorsi il New York Times ha pubblicato un audio del Segretario di Stato John Kerry che, parlando con i membri dell’opposizione siriana, si lamenta del fatto di aver chiesto di bombardare e di aver «perso la partita». Kerry aggiunge che la situazione ad Aleppo potrebbe cambiare le cose. L’audio di Kerry, che si lamenta dei russi «che non credono alle regole internazionali» e che sostiene che Assad non si fermi di fronte a nulla, segnala lo scontro interno all’amministrazione. Obama è il meno propenso ad agire, Kerry, che oggi continua a voler dialogare con Mosca, sta in mezzo e all’estremo opposto ci sono pezzi di Pentagono e Samantha Power, ambasciatore americano all’Onu, storica confidente del presidente in politica estera e teorica dell’intervento umanitario che nei giorni scorsi all’Onu ha alzato i toni contro Mosca – ha scritto cose importanti sul genocidio ruandese del 1994, sostenendo che in situazioni simili è giusto intervenire. I dissidi interni, la volontà di Kerry di proseguire a trattare con Mosca nella convinzione che i russi si rendano conto dei pericoli di un impegno a lungo termine nella regione, la difficoltà nell’avere a che fare con un’opposizione siriana divisa e a tratti qaedista, rendono complicata ogni ipotesi. E il rischio è quello del proseguimento dello stallo da parte occidentale. L’unica certezza sono i morti civili di Aleppo.