La titolare dell'Home Office, Amber Rudd lancia un piano per ridurre la presenza di stranieri. Anche europei. Meno studenti e immigrati «solo per i mestieri che i britannici non vogliono fare». I conservatori rincorrono l'Ukip, mostrano di non temere il Labour e di non temere i danni economici di politiche isolazioniste

«Sono qui ad avvertire coloro che si oppongono alla riduzione del numero netto di immigrati: questo governo non rinuncerà al suo impegno di occuparsi prima dei britannici» (“british people first”, è la frase, applausi della sala).

Amber Rudd, la Home Secretary, il ministro degli Interni britannico ha parlato alla conferenza annuale del suo partito, quello conservatore, a Birmingham. Il centro del suo discorso è forse la frase qui sopra, accompagnata da alcune proposte: espulsione facilitata dei piccoli criminali anche cittadini europei e divieto di ritorno in Gran Bretagna, cambiamento del sistema di visti per gli studenti universitari in maniera che arrivino solo quelli migliori, incoraggiando le imprese ad assumere prima i sudditi di Sua Maestà. E poi incoraggiare le imprese a rendere pubblica la quota di lavoratori stranieri che impiegano.

Questa è la proposta che ha fatto più rumore e che ha fatto infuriare cittadini stranieri, che spesso lavorano in posizioni di alto livello, magari alla City e anche la Confindustria locale. L‘idea di far pubblicare le quote è un modo per umiliare in qualche modo quelli che impiegano troppi stranieri. Ma è potenzialmente un danno grave. La verità è infatti che c’è un problema di lavori che le persone non vogliono più fare – perché degradanti, pagati male o perché il mercato è in parti del Paese dove bisogna guadagnare molto per avere una casa dignitosa, cfr Londra – ma, specie in alcuni segmenti del mercato del lavoro britannico, c’è una classe dirigente mondiale al lavoro in centri ricerca, università, società finanziarie, servizi di alta qualità che rendono l’economia britannica internazionale e competitiva. O che, come ha dichiarato Anna Soubry, deputata conservatrice che si era schierata contro la Brexit, «tornano a casa conoscendo il modo in cui funzioniamo, grati al nostro Paese e fortificano le relazioni tra noi e i luoghi con cui commerciamo».

La verità è che i Tories, come ha fatto anche capire la premier Theresa May, si preparano a una Brexit molto più dura del previsto, che l’obbiettivo è quello – cinico – di incassare il risultato del referendum e riprendersi i voti in uscita verso l’Ukip. Anni di retorica sull’immigrazione, mentre i numeri non calavano – nonostante all’Home Office ci fosse l’attuale premier – non sono bastati e oggi il partito di Cameron, dimenticato in fretta dal suo partito, assente persino nella galleria fotografica di primi ministri a Birmingham, svolta a destra.

L’elettorato conservatore ha votato per l’uscita ed ha nostalgia di un Paese che non c’è più. Stesso discorso per gli elettori che scelgono la formazione già guidata da Nigel Farage (che probabilmente tornerà alla guida del “suo” partito). In questo contesto non è la proiezione internazionale della City che conta e neppure l’eccellenza delle università – che ci guadagnano ad avere scienziati di prim’ordine, anche quando questi non parlino correntemente inglese. Il fatto che il Labour sia tanto indietro nei sondaggi e che a guidarlo sia rimasto Jeremy Corbyn viene considerato da May e compagni un lasciapassare per politiche di destra e anche anti-globalizzazione: non sarà il Labour a correre in soccorso della City. Nel suo discorso, la stessa May ha corteggiato la working class (bianca) e attaccato la finanza. Intanto la sterlina è ai minimi storici, chissà se la cosa preoccupa il 10 di Downing Street oppure se May ritiene che si possa vivere come ai bei tempi in cui la Gran Bretagna viveva beatamente isolata.