Il mondo dei media che conoscevamo è esploso, ma la rivoluzione tecnologica non ha ucciso la carta come si paventava. Anzi, quando l’offerta culturale aumenta c’è più che mai bisogno della critica colta

Il prossimo gennaio la rivista Lo straniero pubblicherà il suo ultimo numero. Lo ha annunciato Goffredo Fofi nell’editoriale del luglio scorso. Finisce un’esperienza ventennale. Ma simbolicamente anche un’epoca, quella delle riviste letterarie che hanno acceso il dibattito del Novecento. Pensiamo per esempio a Belfagor diretto da Luperini, a Paragone ai tempi di Baldacci, ma anche a Linea d’Ombra diretta dallo stesso Fofi dal 1983 al 1995, e così via. «Purtroppo è inutile continuare rimpiangerle, quel modello non tiene più. Il mondo dei media che conoscevamo è esploso, si è frammentato, non è più mappabile. Se guardiamo al pubblico tradizionale dobbiamo dire che quelli che leggono sono una estrema minoranza, ma è anche vero che quella minoranza c’è ed è infra generazionale. Semmai il problema è che oggi sono un po’ meno riconoscibili i luoghi in cui si riesce ancora a fare critica», dice Giorgio Zanchini conduttore di Radio Rai, saggista e ideatore del Festival del giornalismo culturale di Urbino e Fano (dal 14 al 16 ottobre).

Nel suo ultimo libro Leggere cosa e come (Donzelli) tratteggia un quadro articolato e complesso del panorama attuale dell’informazione culturale dando rilievo ai cambiamenti portati dalla diffusione di Internet che ha reso più facile e democratico l’accesso alle notizie. In particolare, Zanchini sottolinea la dimensione partecipativa e di condivisione che caratterizza i social network. Senza tuttavia tacere riguardo agli aspetti negativi: «Sul web si sviluppa il discorso pubblico, ma è difficile distinguere l’autorevolezza e l’affidabilità delle voci». La cacofonia di un flusso continuo e massiccio di input, scollegati fra loro, rischia di “travolgere” il lettore se non è abbastanza attrezzato e capace di distinguere le notizie dalle bufale. Senza contare il filtro che esercitano sulle notizie colossi come Facebook e Google.

© Antonio Pronostico
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Con i suoi pro e contro «la rivoluzione tecnologica ha generato un cambio di paradigma nell’informazione», dice Zanchini. Ma non ha ucciso la carta, come invece si paventava. Così come Anobii o Trip advisor, a nostro avviso, non rendono inservibile la critica colta e argomentata. Anzi. In un momento come quello che stiamo vivendo in cui l’offerta culturale di libri, dischi, mostre ecc., è enormemente aumentata rispetto a trent’anni fa c’è più che mai bisogno di mediatori culturali autorevoli, preparati, capaci di organizzare una gerarchia delle notizie e di provare a interpretarne il senso. Ma eccoci al punto: chi ha una formazione specifica e gli strumenti culturali non trova spazio. I critici sono rimasti senza mestiere, per dirla con il titolo di un libro di Alfonso Berardinelli che aveva già acutamente inquadrato il problema negli anni 80. Sparite molte storiche riviste, la critica, in parte, si è rifugiata in rete, in siti letterari come Doppiozero, minima&moralia, Nazione indiana, Finzioni, Il lavoro culturale, Le parole e le cose, il sito di Rivista Studio ecc., ma in Italia il mercato pubblicitario sul web non decolla ancora e il pubblico non è abituato a pagare l’online. Così le riviste culturali telematiche, da noi, restano dei raffinati prodotti di nicchia. «Il fatto è che oggi con la critica non si campa più», commenta Giorgio Zanchini. «Non ci sono più, o sono pochissimi, quelli che riescono a vivere facendo i critici militanti come potevano ancora fare Geno Pampaloni o Luigi Baldacci; oggi i critici o sono accademici o devono arrabattarsi con altri mestieri e, nei rimasugli di tempo, scrivono delle recensioni e indirizzano i lettori».

© Antonio Pronostico
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Anche perché sui quotidiani mainstream va scomparendo la Terza Pagina. Lo spazio per la critica letteraria, argomentata, approfondita, si è andato vistosamente restringendo, sostituito da presentazioni para pubblicitarie e anticipazioni gridate, da stellette e pollici alla Fonzie. La spettacolarizzazione della notizia e la rincorsa al gossip fa sì che Il Domenicale del Sole 24 Ore dedichi l’apertura dello scorso 2 ottobre a quanto guadagna la traduttrice Anita Raja, per dimostrare che è lei la misteriosa Elena Ferrante, autrice dell’Amica geniale e di altri bestseller internazionali pubblicati dalle Edizioni e/o. Il testo letterario in questa prospettiva non conta, non esiste più. Lo show biz “letterario” domina sulle pagine di Repubblica con le perfomances di Baricco e lo spiritualismo di Tamaro, sottraendo spazio all’informazione culturale, ma anche in rete, con la «colonna infame», che rende piccante il sito di Repubblica, fra Madonne che piangono e Olgettine e, come fa notare Alessandro Gazoia, autore di Senza Filtro, chi controlla l’Informazione e di un precedente saggio, anch’esso pubblicato da Minimum Fax, in cui il il saggista e blogger smascherava la falsa democrazia dell’editoria digitale.

Il panorama non è migliore se passiamo ad osservare come viene raccontato il patrimonio d’arte italiano sui grandi giornali, definito «petrolio d’Italia» e «macchina per far soldi» da politici, premier e ministri della Repubblica e trattato come tale in inserti del Corriere della Sera e di Repubblica pagati dagli organizzatori delle mostre, scritti dagli stessi curatori e impaginati come articoli e recensioni, non come redazionali pubblicitari, quali in realtà sono. «Quegli inserti sono stati oggetto di una lunga contrattazione», ricorda Zanchini che negli anni Novanta se ne è occupato come ricercatore. «I redattori protestavano perché quei quartini toglievano spazio, ma quei soldi servivano. Il risultato fu un compromesso. Come per i libri allegati, fu deciso che sarebbero state le firme del quotidiano a scrivere i testi, con un minimo di autonomia. Ma se vai a vedere quegli inserti restano una fregatura per il lettore che non capisce se quella è una pubblicità o no». Come vengono raccontati i musei, le mostre e il patrimonio diffuso che caratterizza la penisola sui media è il tema di un focus di approfondimento della quarta edizione del Festival del giornalismo culturale che si tiene a Urbino e Fano. Dove vengono presentati i risultati della ricerca l’Osservatorio News-Italia diretto da Lella Mazzoli dell’università di Urbino. Un’inchiesta che tratteggia un quadro poco incoraggiante anche rispetto ai canali preferiti dal pubblico dei musei e delle mostre per informarsi: la maggioranza del campione esaminato dichiara che la tv è la fonte preferita. Ma gli spazi per l’arte sulle tre principali reti pubbliche, sono circoscritti a poco più di un quarto d’ora alla settimana. I

l grosso problema dell’informazione sui beni culturali è il «culto maniacale e nevrotico della notizia», come diceva un grande urbanista e giornalista militante come Antonio Cederna. Non capita tutti i giorni che vengano ritrovati dei Van Gogh. O che ci sia una nuova attribuzione che allarga l’esiguo catalogo delle opere di Caravaggio. E allora c’è chi se l’inventa. Come è accaduto nel 2013 per la bufala dei disegni di Caravaggio che due auto proclamati esperti pretendevano di aver ritrovato nel Civico Gabinetto dei disegni del Castello Sforzesco a Milano. Disegni, fra l’altro già noti, della bottega di Simone Peterzano, il pittore bergamasco con cui Caravaggio si formò. “Curiosa” è stata anche la modalità con cui è stata diffusa la notizia, in esclusiva dall’Ansa, presentandola come una scoperta rivoluzionaria. Nonostante il ritrovamento di quei supposti autografi di Caravaggio non fosse stato pubblicato su nessuna rivista scientifica, ma solo in un ebook edito da Amazon. La logica dello scoop è la velocità, il controllo delle fonti sarebbe una perdita di tempo. E molti giornali cartacei, a cominciare da Repubblica, hanno ripreso pari pari il lancio di agenzia, salvo poi pubblicare smentite. Microscopiche. Un caso come questo, o come quello dell’Espresso che nel 2011 ha dedicato la copertina alla improbabile scoperta di un falso Raffaello conservato a Pitti, parlando di incredibile inganno durato secoli, presto smentito, difficilmente possono essere considerati una banale svista. «Quando si parla di storia dell’arte tutto è possibile», ha scritto Tomaso Montanari ne La madre di Caravaggio è sempre incinta (Skira). «In Italia il giornalismo storico-artistico è pressoché defunto, ed è ormai talmente abituato a concepire se stesso come il megafono celebrativo dei Grandi Eventi da non essere più in grado di distinguere una notizia da una bufala. È questo uno dei sintomi più gravi della riduzione di una disciplina umanistica ad escort della vita pubblica italiana: da mezzo per alimentare e strutturare il senso critico, a strumento di ottundimento di massa».
Tutta colpa di giornalisti ignoranti? O anche di un giornalismo sensazionalistico che corrisponde a precise scelte editoriali? Su questo punto offre molti spunti di riflessione Alessandro Gazoia mettendo a fuoco in Senza filtro, la logica neo liberale che è diventata il pensiero unico nei giornali in Italia, che negli anni Duemila hanno visto calare sempre di più le vendite, mentre la pubblicità, anche grazie alla legge Mammì, è stata rastrellata dalla tv, dalla Rai, ma anche e soprattutto dal gruppo Mediaset. La risposta a questa crisi dell’editoria dovuta a molti fattori, fra i quali anche la posizione a lungo dominante di Mondadori, è stata ovunque la stessa, fa notare Gazoia: «Aumentare il lavoro del giornalista, tutti fanno tutto, tutti scrivono su tutto. Per ragione di necessità, di velocità, di risparmio di risorse». Non importa se con competenza. Il giornalista, culturale o meno, è diventato un tuttofare che scatta foto, gira video, scrive il pezzo, lo impagina, lo rilancia su facebook, twitter, google plus, instagram… «Do more with less è il motto del giornalismo oggi in Italia, è richiesta la massima polivalenza funzionale», in molti casi, avendo compensi da collaboratore e tutele da freelance.

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