È morto oggi a Milano Dario Fo, autore di teatro, innovatore, militante, attore superlativo e premio Nobel per la letteratura del 1997, che si è sempre definito “giullare”. E persino pittore. Aveva 90 anni ed era stato ricoverato 12 giorni fa. Qui sotto un’intervista che aveva concesso a Left lo scorso febbraio.
Dario Fo è sempre stato un artista spiazzante: quando nel 1962 presenta Canzonissima ma non risparmia sketch provocatori, e dopo essere stato censurato abbandona il programma; quando nel 1970 in Morte accidentale di un anarchico si ispira al caso di Pinelli ricevendo decine di denunce; quando nel 1977 torna in Tv in prima serata con Mistero buffo raccontando il Vangelo in modo poco canonico.
E Dario Fo è spiazzante ancora oggi: quando entrando nella sua casa normale in un condominio normale in Corso di Porta Romana a Milano, troviamo la porta aperta, come se fossimo nella bottega di un artigiano che ci deve aggiustare una cinta e non di un premio Nobel, e dentro capiamo che è tutto vero, che è tutta creatività e ricerca allo stato puro, senza pause. Con poca vanità, con niente di appariscente ad arredare tra i tanti quadri; quando lo vediamo spettinato, ma vestito come in scena, mentre sposta le tele e le tavole, con la voce più afona e sofferente, un po’ infastidito dalla luce, con la fede al dito, guardando un suo nuovo dipinto, mentre saremmo lì per parlare del suo ultimo romanzo, Razza di zingaro, ma lui ha già lo sguardo orientato al futuro, alla sua nuova opera, in fase di scrittura, di cui ci vuole parlare in anteprima: i Menecmi, non di Plauto, i suoi.
Siamo agli inizi del ’700. Il personaggio centrale è un fuciliere di marina. In un’osteria si sta celebrando il suo ritorno in Danimarca dalle Indie, quindici anni dopo essere stato dato per morto. L’uomo di mezza età racconta alla gente del paese la sua avventura e di come lui, abituato a commerciare schiavi, fosse diventato a sua volta schiavo di aborigeni tagliatori di teste. Aveva imparato l’Indio «per curiosità, e aveva scoperto l’intelligenza e il sapere di questi selvaggi che venivano trattati come bestie, e grazie a questa conoscenza era riuscito a salvare la vita a sé e alle altre persone della sua Compagnia, con arguzia e intelligenza». Dopo il racconto delle peripezie, tornando a casa, ubriaco, «sul suo carro trainato da un paio di cavalli di grande stile e forza viene proiettato fuori dal veicolo e per poco non s’ammazza». Un gruppo di nobilastri della zona assiste all’incidente accorgendosi che l’uomo ha la stessa faccia di uno di loro, un duca. «Questo straccione ha la tua faccia… è un tuo sosia perfetto! Facciamogli uno scherzo incredibile».
Bonifacio VIII, dal Mistero Buffo, trasmesso in Tv nel 1977
Fo scrive nei suoi appunti che il doppio in scena sarà reso da una marionetta. Il marinaio malconcio e puzzolente viene dunque lavato e vestito da nobile. Al risveglio nella reggia il medico di famiglia compiacente gli fa credere di avere un’amnesia. «Gli fanno conoscere la moglie e lei non capisce perché il marito dopo tanti anni sia così preso d’amore». «Il tema del doppio – ci dice l’autore – determina dei contrappunti molto strani e divertenti». Questa commedia, che sarà uno spettacolo o forse un romanzo, è tratta da un vecchio intreccio che ispirò anche Alberto Sordi nel Marchese del Grillo. «Ma lui l’ha usato trattandolo male, perché con lui vincono i padroni e i furbi, mentre il mio personaggio, quando si accorge dell’inganno, ribalta tutto e dà una lezione ai prepotenti». Il Duca è un truffatore e un corrotto e il marinaio che lo impersona, quando ormai è consapevole del gioco, all’arrivo della polizia che lo accusa, ammette le colpe del nobile che a quel punto vuole ucciderlo. «E lì c’è una catarsi, uno sballo che è inutile che ti racconti». In questo canovaccio riconosciamo alcune fra le caratteristiche più note dell’opera di Fo: la critica verso le istituzioni, nella figura del Duca, ma anche in quella della Compagnia delle Indie che fa affari depredando terre e schiavizzando popolazioni; la capacità di costruire delle macchine per far ridere con l’uso del sosia e degli equivoci che si porta dietro; il teatro nel teatro, sia all’osteria quando il marinaio racconta come fosse un attore, sia a corte nella messa in scena dei ruoli; la presenza del matto, che può dire verità scomode, ovvero il finto duca che confessa le le “sue” malefatte. E quando il protagonista si rivolge in dialetto Indio ai temibili cacciatori della foresta non possiamo non pensare al suo vecchio grammelot: «Esu tu stranchalì trenchinò eisesal» (Noi non siamo venuti qui per catturarvi ma per essere catturati, siete contenti?).
La sensazione più forte incontrando il Maestro alla vigilia dei 90 anni è che tutto il suo mondo creativo sia fluido. Si intrecciano i mezzi espressivi, ad esempio pittura e scrittura, in attesa del palcoscenico: dipingere lo aiuta a superare il blocco dello scrittore e soprattutto a portare avanti la storia. Ugualmente narrare, affabulare, genera idee e spunti che poi finiranno sulla tela. Per lui che nasce pittore, avendo frequentato l’Accademia di Brera e che è anche scenografo dei suoi spettacoli, abbozzare con i colori, o semplicemente con un pennarello e il bianchetto, delle situazioni, significa immaginare uno storyboard trasversale che conduce al testo e poi alla scena.
Poi questa osmosi si riscontra nella costruzione delle trame, tra vita, arte e sogni. Nei personaggi mette inevitabilmente se stesso: il protagonista di Razza di zingaro, un boxeur gitano realmente esistito che dopo la prima guerra mondiale sfidò il nazismo, è visto come un mimo, più attento allo spettacolo che alla violenza dei colpi. Lo ritrae con un dinamismo alla Fo, con tratto michelangiolesco, con le movenze della Commedia dell’Arte.
Il percorso di mediazione è sempre stato il cuore del suo stile: più che mettere in scena direttamente l’azione, Fo preferisce farla raccontare da un personaggio, meglio se giullare o cantastorie.
Il romanzo edito da Chiarelettere ha più lo stile della storia narrata che della prosa. E pure nei Menecmi il clou, ritratto nel quadro, non è la storia nel suo compiersi ma il suo racconto: il superstite riporta la sua vicenda alla gente del paese nel “teatro” dell’osteria. Infine in questa fluidità il passato comunica con il presente e apre squarci sul futuro: prende davanti a noi un suo vecchio dipinto di Franca Rame e ne ridisegna la silhouette su un foglio per poi ridurla e incollarla su una tavola di legno che riproduce una messa in scena recente del suo spettacolo Lu Santo jullare Francesco. La moglie non c’è più ma è come se avessimo incontrato anche lei in quel salotto di casa dove tutto è possibile.