Puniti per i crimini subiti. I civili sunniti in fuga dagli orrori dell’Is, hanno fatto male i loro conti: pensavano di essere in salvo, credevano che l’orrore attraversato lo avessero finalmente alle spalle, forse si erano addirittura azzardati a tirare un sospiro di sollievo, una volta viste le divise della guardia irachena. Invece no. Una volta consegnatisi nelle mani dei militari, molti di loro sono stati torturati, uccisi e fatti sparire; uomini, donne e bambini. Colpevoli, inappellabilmente – dato che il giudizio l’hanno emesso le milizie arbitrariamente – di provenire da zone di mondo conquistate e gestite dallo Stato islamico. Vendetta e rappresaglia sembrano spesso guidare in maniera distorta chi invece dovrebbe garantire il ripristino della sicurezza.
Dal 2016 queste milizie a maggioranza sciita, artefici delle violazioni dei diritti umani, fanno ufficialmente parte dell’esercito dell’Iraq. Conosciute come Unità di mobilitazione popolare, sono da tempo sostenute dal governo iracheno che fornisce loro armi e sostegno finanziario.
«Milizie paramilitari e forze governative irachene hanno commesso gravi violazioni dei diritti umani, tra cui crimini di guerra, nei confronti di migliaia di civili fuggiti dalle zone occupate dallo Stato Islamico»
La denuncia è di Amnesty International, che nel suo rapporto Uccisi per i crimini di Daesh: violazioni dei diritti umani contro gli sfollati iracheni ad opera delle milizie e delle forze governative (qui il rapporto integrale, Punished for Daesh’s crimes), che diffonde l’allarme in concomitanza con l’avvio delle operazioni militari per la riconquista di Mosul. Proprio per mettere in guardia dal rischio di ulteriori violazioni.
Sono oltre 470 le interviste a ex detenuti, testimoni, familiari di persone uccise, scomparse o in prigionia, funzionari, attivisti, operatori umanitari che raccontano di rapimenti, torture, fucilazioni e altre esecuzioni extragiudiziali, uccisioni di massa, stupri.
«C’era sangue sulle pareti. Ci picchiavano con qualunque cosa avessero a portata di mano: pale, tubi di gomma, cavi elettrici, sbarre di metallo. Salivano sopra di noi con gli stivali, ci insultavano, ci dicevano che questa era la vendetta per il massacro di Speicher [la base militare dove l’Is catturò e uccise sommariamente circa 1700 reclute sciite]. Due persone sono morte davanti ai miei occhi»
Questo è solo uno dei racconti fatti dai sopravvissuti e raccolti nel rapporto. C’è chi ha perso figli, un compagno, una sorella, la vita.
Amnesty ha denunciato la situazione alle autorità irachene e curde il 21 settembre. Nel rapporto, sono incluse una serie di raccomandazioni rivolte al governo centrale atte a interrompere il prima possibile le condizioni che generano questo vuoto di diritti e di umanità, e rivolte a ripristinare lo stato di diritto. Ma i primi non hanno risposto, i secondi smentito.
Cosa c’è dietro?
Ormai, in quelle zone, guerra, fede, appartenenza e morte si confondono e nutrono una dell’altra. Le autorità irachene così come quelle del governo regionale curdo, per verificare chi ha legami con l’Is, sottopongono a controlli di sicurezza tutti i maschi considerati in età da combattimento (tra 15 e 65 anni) in fuga dalle zone controllate. È in queste procedure che il margine per l’arbitrarietà è ampio e senza controllo. Né durante (non si può contattare nessuno, né essere portati di fronte a un giudice), né dopo: non c’è alcun modo per avere prova di ciò che avviene, o delle persone passate al vaglio dei paramilitari. Non solo: la tortura viene spesso usata per estorcere confessioni. Ma le irregolarità raggiungono anche il processo ordinario: stando ai dati dell’Organizzazione, finora nel 2016 sono state eseguite da tribunali iracheni almeno 88 condanne a morte, per lo più per reati di terrorismo, molte delle quali basate su confessioni e raccolta di prove che violano tutti i diritti. Sono state emesse altre decine di condanne a morte e almeno 3000 prigionieri si trovano nei bracci della morte in attesa dell’esecuzione.