«Venezia. Stazione ferroviaria di Santa Lucia. Fu il rumore disinvolto e arrogante dei tacchi ad attirare la sua attenzione sulla donna. Si voltò quasi di scatto e la vide avanzare fendendo il folto gruppo di passeggeri che erano appena scesi da un treno ad alta velocità proveniente da Napoli. L’uomo ebbe il tempo di osservare la falda del soprabito primaverile che si apriva a ogni passo, permettendo un’occhiata fugace alle gambe dritte e tornite, messe bene in mostra da un vestito corto e leggero», con questo incipit, nel suo primo thriller dal titolo Il turista (Rizzoli), Massimo Carlotto ci porta in una Venezia segreta, un percorso di calli, osterie, antichi palazzi, sconosciuti al turismo di massa. Riuscendo a farci sentire di nuovo l’odore di salmastro nella laguna, che in questo romanzo appare in tutta la sua misteriosa bellezza, riscattata dalle aggressioni delle grandi navi. Riprende vita così una Venezia non più solo piatto scenario da cartolina, come in tantissimi thriller americani. E’ lei la vera protagonista, quasi fosse animata e più vitale degli stessi personaggi. Anche perché il protagonista, Abel Cartagena, è uno psicopatico che ha ben poco di umano. Non prova alcuna emozione, ma è un abile e freddo manipolatore, mima i sentimenti, fa finta di provare qualcosa con la moglie e perfino con l’amante snocciolando solo frasi fatte. Lo fa lucidamente per mantenere una apparente normalità, per avere una copertura, un alibi, quando uccide – per i motivi più futili – donne adocchiate casualmente per strada, magari solo per una borsetta, per un modo di camminare. Lo fa spogliandosi dei suoi abiti di storico della musica e calandosi nel ruolo di un anonimo turista delle città d’arte. Che colpisce e fugge. Ogni volta dopo aver strangolato la vittima, il solito rituale di stendere su un lenzuolo bianco gli effetti personali della malcapitata e contemplarli ad uno ad uno. Il suo rapporto con gli oggetti, con la realtà materiale è perfetto. (Abel non passa mai con il rosso, è puntuale nel consegnare il lavoro…). ma ha perso completamente il rapporto con gli esseri umani. E Massimo Carlotto lo racconta in modo scientifico, quasi clinico. Riuscendo a trasformare una narrazione avvincente in un palinsesto, in cui si intrecciano molti fili, fra i quali quello psichiatrico di descrizione della gravissima patologia mentale di cui è affetto il protagonista e quello storico politico di denuncia mettendo in luce come «i regimi, le mafie, ma anche le multinazionali ingaggino proprio personalità psicopatiche per fare il lavoro sporco, per torturare, per perseguitare, per licenziare». Perché, spiega Carlotto, lo fanno in maniera fredda, lucida, senza essere sopraffatti dal dolore e dal senso di colpa, senza provare pietà.
In un venerdì romano capita così che lettori attenti e sorprendentemente preparati affollino una bella libreria un po’ fuori mano, nel centro commerciale I Granai per discutere insieme a Carlotto e Stefania Parmeggiani (a sua volta autrice di un bel noir) per discutere di questi e altri temi che innervano Il turista. Per capire quale sia la fucina in cui è nato questo nuovo libro dell’autore che ha inventato un personaggio impareggiabile e irregolare come l’Alligatore. La prima domanda dunque non può che essere perché un autore di noir, genere che affresca realtà complesse e sfumate, abbia deciso di misurarsi con un thriller. «Non ho mai scritto un thriller vero e proprio. Questo è il primo», ammette lo scrittore. «Ho provato, ma poi ha ripreso la strada del noir e della spy story. Sono passato da un territorio narrativo ad un altro, forzando i generi». Perché sfidare un genere così rigidamente codificato? «Per anni sono stato diffidente verso il thriller, non avrei mai scritto su un tipo come Pacciani, ( il “mostro di Firenze” ndr), non mi sembrava potesse diventare un personaggio interessante dal punto di vista narrativo». Ma poi è saltata fuori l’idea del turista. «È nato dall’incontro con il criminologo Corrado De Rosa che mi ha suggerito una serie di letture sui serial killer, sulle personalità psicopatiche, sui criminali che spendono la loro vita per eliminare il prossimo». Il pensiero corre a personaggi come Hannibal Lecter (il personaggio inventato dallo scrittore Thomas Harris e interpretato sul grande schermo da Anthony Hopkins) ma ciò che questo nuovo romanzo di Massimo Carlotto riesce a cogliere in modo esemplare, fuori da un’eccessiva spettacolarizzazione, è un preciso fatto medico-psichiatrico: la totale anaffettività del protagonista, la sua schizoidia. «Il mio personaggio non è un schizofrenico che sente le voci. Abel appare perfettamente capace di intendere e volere. È uno psicopatico funzionale, che nasconde la propria malattia mentale. Lo fa mistificando». Anche nel lavoro. Si occupa di autori che nessuno conosce o pochissimo conosciuti. «Finge di capire e sentire la musica. In realtà raccoglie notizie e le assembla», sottolinea Carlotto. Anche andando a frugare nella sua infanzia, apparentemente non ci sono drammi, non ci sono traumi, ma scopriamo una madre molto sollecita, che lo accudisce e non gli fa mancare niente sul piano materiale. Addirittura cerca di aiutarlo pagando laute cifre per coprirlo. La peggiore pazzia si nasconde sotto una apparentemente irreprensibile normalità. «Non tutti gli psicopatici diventano apertamente dei criminali – commenta Carlotto – altri hanno una vita normale, ma arrivano sempre a rovinare la vita degli altri, sono dei grandi manipolatori. Non a caso ci sono molti psicopatici fra i politici. Ne abbiamo diversi esempi sotto gli occhi».