Che si creda o no l’immagine dei cittadini di Norcia inginocchiati sulle macerie nella piazza cittadina è la moderna versione della Pietà di Buonarroti. È il cadere sulle ginocchia perché si spezzano le gambe sotto il peso degli eventi, la disperanza che diventa cemento nelle vene e la paura di alzare lo sguardo più lontano del luogo calpestato. Il terremoto di ieri non è terremoto misurabile per vittime e danni, non solo: il terremoto di ieri è il colpo di vento che ci abbatte appena rialzati, uno sgambetto che appare mostruosamente chirurgico e cronico oppure più banalmente l’insopportabile perseveranza del dolore quando perdura.
Quando questo Paese si ritrova ad affrontare dolori così grandi riesce sempre a spremere una compostezza commovente e l’aria intorno, appena si posa lo sbriciolio delle macerie, si fa greve ma comunitaria e responsabile.
Mi chiedevo ieri sera guardano le immagini e ascoltando i commenti e le voci se davvero serva sempre un lutto per riuscire a scalare pareti dell’umanità che poi inevitabilmente tornano ad essere disabitate e sbeffeggiate. Mi chiedo, e non ho la risposta, perché ormai la convergenza solidale avvenga solo quando si ha paura di morire o si ha contezza di esserne scampati per poco. Cosa diluisce la responsabilità poi cammin facendo? Domando, esclusi i Salvini e i complottisti, perché non si riescano a innescare questi stessi sensi corrispondenti sulle ingiustizie provocate dall’uomo, dalle persone sulle persone, senza bisogno di falde e smottamenti.
Forse conviene tenersele in tasca, come memorandum, le macerie prima di ricostruire.
Buon lunedì.