Giovedì 3 novembre, l’Alta corte del Regno Unito ha deciso che il Governo britannico non può attivare l’articolo 50 del Trattato di Lisbona - valido per l'uscita del Paese dall'Ue - senza un voto di approvazione da parte del Parlamento nazionale. La legittimità di un’azione unilaterale da parte del governo britannico era stata messa in discussione da un gruppo di privati cittadini guidati dalla manager e filantropa, Gina Miller. Il giorno dopo la sentenza Miller è stata ripresa da quasi tutte le prime pagine del Regno Unito. Del resto, nelle ultime settimane era già diventata una delle figure di riferimento del fronte pro-Ue nella società civile. In ogni caso, Theresa May avrebbe già deciso di andare oltre. A pochi minuti dalla sentenza, il ministro per il Commercio internazionale, Liam Fox, ha commentato di fronte alla House of Commons (Camera bassa del Parlamento britannico, ndr.) che il governo farà ricorso alla Corte costituzionale, di fatto scavalcando un secondo grado di giudizio. La data per il nuovo verdetto è il 7 dicembre prossimo. Se dovesse cadere nel vuoto anche quello, Theresa May potrebbe addirittura fare appello alla Corte europea di Strasburgo. La sentenza di giovedì ha ovviamente scatenato una turbinio di reazioni politiche. I primi a farsi vivi sono stati quelli dello Ukip, ai quali la sentenza dell’Alta corte ha dato nuova linfa – il partito era infatti entrato in una profonda crisi politica e finanziaria dopo il voto del referendum. Nigel Farage, rivolgendosi all’intera classe politica britannica, ha affermato: «Non hanno idea della reazione pubblica che scatenerebbe un blocco dell’art.50». Su toni simili Suzanne Evans, candidata alla guida dello UKip:  «Come si permettono questi giudici “attivisti” di ribaltare la volontà popolare? È un colpo di mano che minaccia la democrazia». Dal canto suo, il governatore della Banca centrale del Regno Unito ha detto che la sentenza provoca ulteriore incertezza per l’economia del Paese. Ma la vera domanda che, a questo punto, si fanno in molti è: Brexit può ancora essere ribaltata e svanire nel nulla? Theresa May, tramite la sua portavoce, ha dichiarato che i piani del governo non cambiano e che, come previsto, l’articolo 50 verrà attivato entro marzo 2017, con o senza il coinvolgimento di Westminster. Insomma, il Brexit non sarebbe in discussione. Jeremy Corbyn ha subito fatto sapere che «il Labour garantirà una Brexit efficiente per lo UK» e che il suo partito «continuerà a rispettare la scelta dei cittadini britannici di lasciare l’Ue». E a Bruxelles qual è stata la reazione? La Commissione europea ha tenuto un profilo basso. Un portavoce di Palazzo Berlaymont ha ribadito che «una sentenza dell’Alta corte britannica resta un affare costituzionale interno e non riguarda le istituzioni». Allo stesso tempo però, ha anche rivelato che Theresa May avrebbe chiesto un colloquio telefonico al presidente della Commissione europea. Eppure, le speculazioni riguardo a un ribaltamento clamoroso non sono così infondate. Già prima della sentenza, dalla Germania era arrivato un segnale importante. Il Comitato dei saggi dell’economia, nel suo rapporto annuale per il governo, ha suggerito ad Angela Merkel «di condurre negoziati costruttivi per evitare un’uscita dall’Unione da parte del Regno Unito». Allo stesso tempo, John Kerr, un ex-diplomatico britannico che aveva giocato un ruolo importante proprio nei lavori di preparazione alla stesura del Trattato di Lisbona, ha dichiarato che «l’attivazione dell’articolo 50. non è affatto irrevocabile». Senza contare che in passato il Presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha ammesso che un ripensamento sarebbe benvenuto. Ma non finisce qui. Due giorni prima della sentenza dell’Alta corte, un gruppo di accademici britannici, guidati dal professor Anand Menon, hanno indicato una serie di condizioni che potrebbero giustificare un clamoroso capovolgimento di prospettiva. Nello specifico, una lista di fattori sufficienti elencati dal rapporto “Uk in a Changing Europe”,  sarebbero: «significativi shock di natura economica o diplomatica, un'aggressione militare, oppure un cambio di governo». Il problema è che Downing Street, dopo la sentenza, ha subito chiuso la porta a chi ha insinuato elezioni anticipate: «La nostra posizione rimane chiara. Non si voterà fino al 2020». Ma è proprio sull’eventualità di una legislatura duratura che si innesta una seconda analisi che punta a un potenziale svanimento del Brexit. È quella di Geoffrey Robertson, noto avvocato e difensore dei diritti umani che, tra l’altro, aveva previsto correttamente il risultato della sentenza di giovedì. Robertson sostiene che, se si guarda alla legge che ha istituito il voto popolare di giugno, si è costretti a riconoscere che il referendum ha avuto natura consultiva. Un po’ come accadde in Grecia nel luglio del 2015, per intenderci. È anche per questo motivo che l’Alta corte non ha autorizzato il governo di Theresa May ad attivare unilateralmente l’art. 50. Ma se ciò è vero, anche il Parlamento non è tenuto ad attivare l’art.50, anzi. Secondo Robertson, «se il Parlamento avesse il coraggio e l'integrità morale e politica» dovrebbe bloccare l’attuale processo e spingere per un secondo referendum, questa volta con espressa natura vincolante. Secondo Robertson, «la Camera dei Lord agirà proprio in questo senso». Ma a quel punto, chi si prenderà la responsabilità di indire un nuovo referendum? Lo potrebbe fare la May affermando di difendere “la volontà del popolo”, ma rischierebbe molto, proprio come Cameron. Secondo un recente sondaggio, il fronte pro-Ue avrebbe infatti convinto la maggioranza dei cittadini del Regno Unito -  il 51 per cento –  che non vale la pena uscire dall’Ue. La ricerca sottolinea come il 49 per cento di coloro che a giugno non avevano votato, oggi sarebbero a favore di una permanenza nell’Unione, contro un 27 per cento che appoggia il Brexit. Insomma, sarebbe più facile e sicuro, aspettare le elezioni del 2020. Ovviamente, il ragionamento rimane in piedi solo se la Corte costituzionale britannica e quella di Strasburgo (qualora interpellata) dovessero confermare la sentenza dell’Alta corte di giovedì. Ma secondo Robertson, non c’è motivo di dubitarne. Insomma, esiste uno scenario paradossale. Quello in cui il governo britannico non riesce ad attivare unilateralmente l’art.50, ma non ha nemmeno la forza politica di indire un secondo referendum. Non è così fuori dal mondo, tanto meno dall’Europa. Un po’ come lo Uk di oggi.       [su_divider text="In edicola" style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]

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Giovedì 3 novembre, l’Alta corte del Regno Unito ha deciso che il Governo britannico non può attivare l’articolo 50 del Trattato di Lisbona – valido per l’uscita del Paese dall’Ue – senza un voto di approvazione da parte del Parlamento nazionale.

La legittimità di un’azione unilaterale da parte del governo britannico era stata messa in discussione da un gruppo di privati cittadini guidati dalla manager e filantropa, Gina Miller. Il giorno dopo la sentenza Miller è stata ripresa da quasi tutte le prime pagine del Regno Unito. Del resto, nelle ultime settimane era già diventata una delle figure di riferimento del fronte pro-Ue nella società civile.

In ogni caso, Theresa May avrebbe già deciso di andare oltre. A pochi minuti dalla sentenza, il ministro per il Commercio internazionale, Liam Fox, ha commentato di fronte alla House of Commons (Camera bassa del Parlamento britannico, ndr.) che il governo farà ricorso alla Corte costituzionale, di fatto scavalcando un secondo grado di giudizio. La data per il nuovo verdetto è il 7 dicembre prossimo. Se dovesse cadere nel vuoto anche quello, Theresa May potrebbe addirittura fare appello alla Corte europea di Strasburgo.

La sentenza di giovedì ha ovviamente scatenato una turbinio di reazioni politiche. I primi a farsi vivi sono stati quelli dello Ukip, ai quali la sentenza dell’Alta corte ha dato nuova linfa – il partito era infatti entrato in una profonda crisi politica e finanziaria dopo il voto del referendum. Nigel Farage, rivolgendosi all’intera classe politica britannica, ha affermato: «Non hanno idea della reazione pubblica che scatenerebbe un blocco dell’art.50». Su toni simili Suzanne Evans, candidata alla guida dello UKip:  «Come si permettono questi giudici “attivisti” di ribaltare la volontà popolare? È un colpo di mano che minaccia la democrazia». Dal canto suo, il governatore della Banca centrale del Regno Unito ha detto che la sentenza provoca ulteriore incertezza per l’economia del Paese.

Ma la vera domanda che, a questo punto, si fanno in molti è: Brexit può ancora essere ribaltata e svanire nel nulla?

Theresa May, tramite la sua portavoce, ha dichiarato che i piani del governo non cambiano e che, come previsto, l’articolo 50 verrà attivato entro marzo 2017, con o senza il coinvolgimento di Westminster. Insomma, il Brexit non sarebbe in discussione. Jeremy Corbyn ha subito fatto sapere che «il Labour garantirà una Brexit efficiente per lo UK» e che il suo partito «continuerà a rispettare la scelta dei cittadini britannici di lasciare l’Ue». E a Bruxelles qual è stata la reazione? La Commissione europea ha tenuto un profilo basso. Un portavoce di Palazzo Berlaymont ha ribadito che «una sentenza dell’Alta corte britannica resta un affare costituzionale interno e non riguarda le istituzioni». Allo stesso tempo però, ha anche rivelato che Theresa May avrebbe chiesto un colloquio telefonico al presidente della Commissione europea.

Eppure, le speculazioni riguardo a un ribaltamento clamoroso non sono così infondate. Già prima della sentenza, dalla Germania era arrivato un segnale importante. Il Comitato dei saggi dell’economia, nel suo rapporto annuale per il governo, ha suggerito ad Angela Merkel «di condurre negoziati costruttivi per evitare un’uscita dall’Unione da parte del Regno Unito». Allo stesso tempo, John Kerr, un ex-diplomatico britannico che aveva giocato un ruolo importante proprio nei lavori di preparazione alla stesura del Trattato di Lisbona, ha dichiarato che «l’attivazione dell’articolo 50. non è affatto irrevocabile». Senza contare che in passato il Presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha ammesso che un ripensamento sarebbe benvenuto. Ma non finisce qui.

Due giorni prima della sentenza dell’Alta corte, un gruppo di accademici britannici, guidati dal professor Anand Menon, hanno indicato una serie di condizioni che potrebbero giustificare un clamoroso capovolgimento di prospettiva. Nello specifico, una lista di fattori sufficienti elencati dal rapporto “Uk in a Changing Europe”,  sarebbero: «significativi shock di natura economica o diplomatica, un’aggressione militare, oppure un cambio di governo». Il problema è che Downing Street, dopo la sentenza, ha subito chiuso la porta a chi ha insinuato elezioni anticipate: «La nostra posizione rimane chiara. Non si voterà fino al 2020». Ma è proprio sull’eventualità di una legislatura duratura che si innesta una seconda analisi che punta a un potenziale svanimento del Brexit. È quella di Geoffrey Robertson, noto avvocato e difensore dei diritti umani che, tra l’altro, aveva previsto correttamente il risultato della sentenza di giovedì.

Robertson sostiene che, se si guarda alla legge che ha istituito il voto popolare di giugno, si è costretti a riconoscere che il referendum ha avuto natura consultiva. Un po’ come accadde in Grecia nel luglio del 2015, per intenderci. È anche per questo motivo che l’Alta corte non ha autorizzato il governo di Theresa May ad attivare unilateralmente l’art. 50. Ma se ciò è vero, anche il Parlamento non è tenuto ad attivare l’art.50, anzi. Secondo Robertson, «se il Parlamento avesse il coraggio e l’integrità morale e politica» dovrebbe bloccare l’attuale processo e spingere per un secondo referendum, questa volta con espressa natura vincolante. Secondo Robertson, «la Camera dei Lord agirà proprio in questo senso».

Ma a quel punto, chi si prenderà la responsabilità di indire un nuovo referendum? Lo potrebbe fare la May affermando di difendere “la volontà del popolo”, ma rischierebbe molto, proprio come Cameron. Secondo un recente sondaggio, il fronte pro-Ue avrebbe infatti convinto la maggioranza dei cittadini del Regno Unito –  il 51 per cento –  che non vale la pena uscire dall’Ue. La ricerca sottolinea come il 49 per cento di coloro che a giugno non avevano votato, oggi sarebbero a favore di una permanenza nell’Unione, contro un 27 per cento che appoggia il Brexit. Insomma, sarebbe più facile e sicuro, aspettare le elezioni del 2020. Ovviamente, il ragionamento rimane in piedi solo se la Corte costituzionale britannica e quella di Strasburgo (qualora interpellata) dovessero confermare la sentenza dell’Alta corte di giovedì. Ma secondo Robertson, non c’è motivo di dubitarne.

Insomma, esiste uno scenario paradossale. Quello in cui il governo britannico non riesce ad attivare unilateralmente l’art.50, ma non ha nemmeno la forza politica di indire un secondo referendum. Non è così fuori dal mondo, tanto meno dall’Europa. Un po’ come lo Uk di oggi.

 

 

 

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