Un tempo (brevemente) laboratorio di idee, pur funzionale alla scalata del partito, la Leopolda è sempre più solo il palcoscenico di Renzi. Di Renzi e del suo governo. È naturale che sia così, per la kermesse di una corrente che si è presto scoperta gruppo di potere - detto senza che nessuno si debba offendere. Ai tavoli di discussione un tempo sedevano ricercatori, avvocati, rampanti consiglieri comunali. Oggi ci stanno manager di partecipate, ministri, sottosegretari. È normale che la fabbrica delle idee finisca per essere il luogo in cui si cercano, al massimo, argomenti per sostenere ciò che si sta mettendo in pratica. Basterebbe non spacciarla per altro e sarebbe anche giusto, oltre che normale. Come lo è che il comizio del leader, un tempo sindaco e oggi presidente del consiglio e insieme segretario del partito, sia la riedizione di uno dei tanti, un comizio tra gli altri. Che anche la Leopolda - anzi, che soprattutto la Leopolda - sia il luogo da cui attaccare nemici, difendere le proprie riforme, tornare sullo scontro interno al Pd. Non stupisce nessuno, infatti, che da Firenze sia arrivato un attacco alla minoranza dem. Lo scontro dipinto da Renzi è «tra passato e futuro, tra rabbia e proposta, tra nostalgia e domani, tra i Gattopardi e gli innovatori», non tra «due Italie», ma tra «due gruppi dirigenti, quello del Sì, che ha un’idea chiara, e quello del No: personaggi che, se li chiudi tutti dentro una stanza chiedendogli di mettersi d’accordo su una cosa, non ne escono più». Non stupisce neanche Bersani che pure dice che il coro “fuori-fuori” che ha accolto l’invettiva è «una pagliacciata che dimostra che in quel posto non c’è cultura politica». Non stupisce Oscar Farinetti, che pure allerta “Matteo” sul rischio antipatia. Come spiegano tutti gli esperti di comunicazione e i politologi, Renzi su quella che Farinetti chiama antipatia ha costruito anzi la sua fortuna. Ha bisogno e ricerca continuamente un nemico, Renzi: «qualcuno a cui stare antipatico», come ci dice il professore Michele Prospero. Non stupisce, dunque, che questo sia la Leopolda. Come scrive Massimo Giannini: «Un brutto spettacolo, inutilmente rancoroso e fortemente autoreferenziale. Soprattutto per una kermesse che ha la giusta ambizione di parlare al Paese, non a se stessa». «Ma c’è del metodo», aggiunge Giannini, «in questa scelta renziana». Il metodo c'è ed è lo stesso di sempre. Con la sola novità della paura. La paura di non farcela, che spinge a preparare il piano B. A dire che dopo di lui, se vince il No, nessuno sogni un «governicchio» (scenario di cui scriveremo sul prossimo numero di Left in edicola): lui, segretario del Pd, non lo permetterebbe. Salvo non esser sicuro - si immagina - di fargli fare la fine del governo Letta. Picconandolo, sempre brillante, giovane, simpatico almeno per i suoi. Che sono quelli che contano.

Un tempo (brevemente) laboratorio di idee, pur funzionale alla scalata del partito, la Leopolda è sempre più solo il palcoscenico di Renzi. Di Renzi e del suo governo. È naturale che sia così, per la kermesse di una corrente che si è presto scoperta gruppo di potere – detto senza che nessuno si debba offendere.
Ai tavoli di discussione un tempo sedevano ricercatori, avvocati, rampanti consiglieri comunali. Oggi ci stanno manager di partecipate, ministri, sottosegretari. È normale che la fabbrica delle idee finisca per essere il luogo in cui si cercano, al massimo, argomenti per sostenere ciò che si sta mettendo in pratica. Basterebbe non spacciarla per altro e sarebbe anche giusto, oltre che normale. Come lo è che il comizio del leader, un tempo sindaco e oggi presidente del consiglio e insieme segretario del partito, sia la riedizione di uno dei tanti, un comizio tra gli altri. Che anche la Leopolda – anzi, che soprattutto la Leopolda – sia il luogo da cui attaccare nemici, difendere le proprie riforme, tornare sullo scontro interno al Pd.

Non stupisce nessuno, infatti, che da Firenze sia arrivato un attacco alla minoranza dem. Lo scontro dipinto da Renzi è «tra passato e futuro, tra rabbia e proposta, tra nostalgia e domani, tra i Gattopardi e gli innovatori», non tra «due Italie», ma tra «due gruppi dirigenti, quello del Sì, che ha un’idea chiara, e quello del No: personaggi che, se li chiudi tutti dentro una stanza chiedendogli di mettersi d’accordo su una cosa, non ne escono più». Non stupisce neanche Bersani che pure dice che il coro “fuori-fuori” che ha accolto l’invettiva è «una pagliacciata che dimostra che in quel posto non c’è cultura politica».

Non stupisce Oscar Farinetti, che pure allerta “Matteo” sul rischio antipatia. Come spiegano tutti gli esperti di comunicazione e i politologi, Renzi su quella che Farinetti chiama antipatia ha costruito anzi la sua fortuna. Ha bisogno e ricerca continuamente un nemico, Renzi: «qualcuno a cui stare antipatico», come ci dice il professore Michele Prospero.
Non stupisce, dunque, che questo sia la Leopolda. Come scrive Massimo Giannini: «Un brutto spettacolo, inutilmente rancoroso e fortemente autoreferenziale. Soprattutto per una kermesse che ha la giusta ambizione di parlare al Paese, non a se stessa». «Ma c’è del metodo», aggiunge Giannini, «in questa scelta renziana».

Il metodo c’è ed è lo stesso di sempre. Con la sola novità della paura. La paura di non farcela, che spinge a preparare il piano B. A dire che dopo di lui, se vince il No, nessuno sogni un «governicchio» (scenario di cui scriveremo sul prossimo numero di Left in edicola): lui, segretario del Pd, non lo permetterebbe. Salvo non esser sicuro – si immagina – di fargli fare la fine del governo Letta. Picconandolo, sempre brillante, giovane, simpatico almeno per i suoi. Che sono quelli che contano.