Da oggi in sala il film di Mick Jackson che racconta la storia di Deborah Lipstadt, la docente che è riuscita a smascherare per via giudiziaria le menzogne dello storico inglese

Non c’è «mai stato un sistematico sterminio degli ebrei». «Le vittime dell’Olocausto non sono state 4, 5 oppure 6 milioni ma al più qualche migliaio». «Non sono mai esistite le camere a gas». «La Shoah è un’invenzione dei sionisti». Contro queste lucide menzogne razziste e antisemite propagandate da David Irving si è battuta la studiosa Deborah E. Lipstadt, scrivendo il libro Denying the Holocaust The Growing Assault on Truth and Memory.

Nata nel 1946 a Manhattan, nello Stato di New York, in una famiglia di origini ebraiche, la docente dell’università di Atlanta si è scontrata personalmente con lo storico inglese negazionista che nei suoi libri ha esaltato Hitler, raccontandolo come una brava persona, intelligente e versatile, molto interessata al futuro della Germania. Poi lo ha dipinto come un leader capace e del tutto ignaro dei campi di concentramento. Arrivando infine a dire, negli anni Novanta, che i lager non erano mai esistiti, poiché non si trovava un ordine autografo scritto da Hitler. Fandonie che tuttavia riuscivano a fare presa sulla destra più ignorante e xenofoba. Davanti alla immane tragedia di milioni di persone mandate nelle camere a gas e fatte sparire nei forni crematori c’era ancora chi intendeva cancellarne la memoria. Come storica ed ebrea, Deborah non poteva e non voleva tacere. La sua coraggiosa lotta contro la falsificazione della storia è ora raccontata ne La verità negata (titolo originale Denial) del regista Mick Jackson, scritto con lo sceneggiatore David Hare; un solido film di scuola inglese in cui la studiosa, interpretata da Rachel Weisz (che ricordiamo nel ruolo di Ipazia in Agorà), affronta lo sprezzante negazionista David Irving (Timothy Spall) che nel 1995 la denunciò per diffamazione, avendolo definito negazionista, razzista e bigotto.
In un perverso ribaltamento delle parti nel 2000 Irving riuscì a mettere lei alla sbarra. Dopo la pubblicazione di Denying the Holocaust seppe da una lettera della casa editrice Penguin books di essere stata citata in giudizio.

Di lì a poco Lipstadt si è trovata nella paradossale situazione di dover dimostrare che l’Olocausto è avvenuto realmente, che ad Auschwitz i prigionieri venivano uccisi in camere a gas e che Hitler era responsabile dello sterminio. Lo prevede il sistema giudiziario inglese che chiede all’accusato l’onere della prova (a sua discolpa). Nel film in uscita oggi 17 novembre (e nel libro autobiografico della Lipstadt che uscirà sempre oggi con Mondadori), viene raccontato un doppio conflitto culturale. Non solo Deborah Lipstadt deve riuscire a smontare pezzo a pezzo le falsità propagandate da Irving, ma si scontra anche con i modi molto british del suo avvocato: si sente offesa perché il legale le chiede di fare un passo indietro, addirittura di tacere, rinunciando a lanciarsi in appassionate difese della memoria. L’avvocato del prestigioso studio legale Anthony Julius a cui si era affidata non riteneva sufficienti le centinaia di testimonianze di chi aveva vissuto e visto con i propri occhi l’orrore della Shoah, che Lipstadt aveva raccolto negli anni, riuscendo a raccontare in modo radicalmente nuovo il processo Eichmann nell’omonimo libro uscito nel 2014 per Einaudi. All’avvocato Richard Rampton (l’attore Tom Wilkinson) quei racconti non bastavano; voleva prove schiaccianti, inconfutabili, quelle che poi hanno portato alla condanna del negazionista David Irving, stroncando la sua carriera di storico, cominciata con il controverso Hitler’s War del 1977.

Nella motivazione del giudizio depositato da Justice Charles Gray il 12 aprile 2000 si legge che Irving aveva deliberatamente e continuamente manipolato le fonti e falsificato la storia, per ragioni ideologiche, alterando l’evidenza. Nel suo rapporto di oltre 300 pagine Gray ha usato un rigoroso metodo storiografico per dimostrare la deportazione degli ebrei, la genesi della “soluzione finale”, l’esistenza di camere a gas ad Auschwitz, la deportazione e l’uccisione degli ebrei romani a Roma nell’ottobre 1943.

In quel testo che ha fatto davvero storia, in tutti i sensi, Gray riporta le diverse fonti, contestualizza e mette in relazione i documenti. «È esattamente questo che dobbiamo continuare a fare. La verità è sempre a rischio negazione. L’importante è ristabilirla», dice Deborah Lipstadt intervenuta alla prima italiana del film alla Festa del cinema a Roma, dove Left l’ha incontrata. Non si stanca di raccontare cosa si può imparare da questa vicenda che l’ha messa a dura prova, ma che non ha intaccato la sua passionalità e la sua tenacia, ma anzi, alla fine, sembra averla resa più forte. Al termine della conferenza in sala Petrassi all’Auditorium trova ancora l’energia per affrontare una lunga serie di interviste. Su un punto, insiste molto, trovandosi anche su questo d’accordo con il regista Mick Jackson: «Irving non è il solo». L’attività dei negazionisti echeggia ben oltre la ristretta cerchia dell’ambito specialistico. Il negazionismo, dice Deborah Lipstadt, non riguarda solo la Shoah, «riguarda tanti altri genocidi. È accaduto nella Cambogia di Pol Pot. È accaduto in Armenia da parte della Turchia, in Rwanda dove un’efferata strage è stata liquidata semplicisticamente come conflitto civile interetnico». E nell’America di oggi? «Circolano ancora storie come quella antisemita che riguarda gli ebrei che lavoravano nelle torri gemelle. Qualcuno ha detto che erano stati avvertiti prima per telefono e che così sono riusciti a scampare la strage dell’11 settembre.. Una storia assurda – chiosa Lipstadt – . Facendo un macabro conteggio di quanti sono morti in quell’attentato si scopre che è del tutto falso, ma questa leggenda metropolitana continua a circolare». Ma soprattutto, sottolinea Lipstadt con passione «in America ci sono molti negazionisti che diffondono teorie senza alcun fondamento scientifico. Sono quelli che negano la teoria evoluzionistica e predicano il disegno intelligente. Negazionisti pericolosi sono quelli che diffondono la credenza in un falso nesso fra vaccini e autismo. Ogni volta – ribadisce la studiosa – bisogna metterli con le spalle al muro dimostrando che ciò che dicono è una loro credenza che non ha alcuna evidenza scientifica».

E poi aggiunge. «Servono voci autorevoli, persone preparate, a volte l’accademia o la politica non si muovono per smascherarli, per mostrare quali sono gli interessi che li spingono». Irving dunque è un esempio fra tanti? «Molti mesi fa quando ancora il progetto del film era in fieri Mick ed io ci siamo accorti di quanti tratti in comune Irving avesse con Trump, razzista e bugiardo seriale». Quanto ad Irving? Dopo la presentazione del film al festival di Toronto e a Londra ha scritto qualche commento acido sul suo blog riguardo al film. «Scriva pure tutte le stroncature che vuole, è un onore! – commenta Lipstadt ridendo – si è preso 7 anni della mia vita, non voglio dedicargli un secondo di più».