La battaglia di Aleppo continua e con essa le stragi di civili. Da ieri circolano in rete le immagini dei cadaveri di persone, sarebbero 45, colpite mentre cercavano di lasciare la città. A ucciderli, anche stavolta, le bombe di Assad e dei partner russi, che da tre settimane hanno premuto sull’acceleratore per cercare di terminare l’assedio della città più importante del Paese. Otto persone sono invece morte in quartieri sotto il controllo dell’esercito siriano e l’Onu, chiedendo ad Assad di smetterla con i bombardamenti ha segnalato come alcuni dei gruppi di ribelli stiano impedendo ai civili di lasciare la città.
Di fronte a questo scempio umanitario, 224 organizzazioni non governative lanciano un appello: la convocazione di una sessione speciale di emergenza dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che chieda la fine degli attacchi illegali contro Aleppo così come contro altre zone della Siria e l’accesso umanitario immediato: «Gli Stati membri, devono usare tutti gli strumenti diplomatici a loro disposizione per fermare le atrocità e proteggere milioni di civili siriani».
L’inviato delle Nazioni Unite Stephen O’Brien, parlando davanti al consiglio di sicurezza Onu ha messo in guardia sul fatto che se le bombe non cesseranno di cadere, Aleppo diventerà «un cimitero gigante». È stato proprio O’Brien a parlare dei civili come scudi umani e per questo ha chiesto ad Assad e a «tutte le parti che hanno una qualche influenza» (leggi la Russia e l’Iran) di proteggere i civili «per il bene dell’umanità». L’Onu stima che negli ultimi giorni 25mila persone abbiano lasciato la città e che chi rimane intrappolato sta morendo di fame.
È in questo contesto che si apprende che i gruppi ribelli stanno trattando con la Russia una via di uscita e la fine dei combattimenti in città. Un segnale pessimo per l’Onu e soprattutto per gli Stati Uniti, attori che sembrano essere diventati ininfluenti nel complicato scacchiere mediorientale.
Secondo il Financial Times, che ha discusso con diversi membri dell’opposizione siriana, i colloqui vanno avanti da tempo con la mediazione della Turchia. Uno leader delle milizie di Aleppo ha spiegato: «Non trattiamo con Assad perché non è altro che il leader di una provincia agli ordini di Putin». Da Mosca commentano che non c’è niente di cui essere sorpresi: abbiamo contatti con l’opposizione da molto tempo. Vero, ma pare di capire, non a un livello così alto e non parlando di dettagli.
I russi vorrebbero trovare un accordo per varie ragioni: evitare di prendere Aleppo e di dover concentrare tutte le forze dell’esercito di Assad in quella città, lasciando scoperti altri fronti, aumentare la propria influenza sull’area diventando un interlocutore anche di quelle forze – o almeno alcune di esse – che combattono il regime di Damasco. Che nel frattempo, in città, hanno deciso di darsi un comando unitario, avendo preso atto del fatto di essere in ritirata e che le tensioni non hanno aiutato a frenare l’avanzata del regime.
In questo contesto gli sforzi di Kerry per rilanciare la tregua non fanno passi avanti. «Gli americani non sanno nemmeno cosa stia succedendo ad Ankara» dice una persone coinvolta nei colloqui al Financial Times. Ovvero, gli americani, che hanno evitato per anni di intervenire, poi hanno tracciato una linea rossa, un punto di non ritorno per Assad, al quale non hanno dato seguito, sono diventati ininfluenti. E adesso, con l’avvento dell’amministrazione Trump, che punta ad un accordo con Mosca per combattere l’Isis nella regione, lo diventeranno ancora di più – si stempereranno le tensioni, ma a guidare le danze sarà Putin.
Non sappiamo cosa succederà ad Aleppo nelle prossime ore, ma abbiamo una certezza: l’Onu, gli Stati Uniti (non parliamo nemmeno dell’Europa) hanno assistito alla carneficina siriana e all’uso indiscriminato di armi chimiche, bombe a grappolo e uso massiccio dei bombardamenti aerei contro i civili senza battere ciglio. Per anni. Spaventati dalle conseguenze, presi dalla propria crisi economica e politica, gli occidentali hanno smesso di pesare lasciando spazio a Russia, Iran, Arabia Saudita, Qatar. E dimostrando in qualche modo che le chiacchiere sui diritti umani non contano più, che le dittature sono più efficienti e rapide delle democrazie e che le stragi capitate in Ruanda, ex Jugoslavia o Cecenia (per parlare di Russia), sono passate invano.
PS. Quello qui sotto è Anas al Basha, che faceva un lavoro con i bambini della città, cercando di animare un po’ le loro vite in questi mesi terribili. È morto sotto le bombe due giorni fa. Aveva 24 anni