Il vice presidente di Libertà e giustizia avverte: La riforma Renzi inficia anche la prima parte della Carta. Cancellando, nei fatti, l'art 11 - "L'Italia ripudia la guerra" - e l'art. 9

Questa mattina in Campidoglio Tomaso Montanari, storico dell’arte e vice presidente di Libertà e giustizia, con gli assessori Paolo Berdini e Luca Bergamo, per Emergenza Costituzione argomenta le ragioni del no al Referendum costituzionale. Tra gli altri intervengono Salvatore Settis, Roberto Zaccaria, Paolo Maddalena e altri. Qui il programma. A Montanari, che è stato uno dei volti della campagna per il No, abbiamo chiesto di spiegarci le conseguenze di alcuni fra i punti più controversi della riforma.

Professor Montanari, i desiderata della banca d’affari JP Morgan riguardo all’Italia, salutati con favore da Napolitano, trovano accoglienza nella riforma Renzi-Boschi-Verdini? In altre parole, quale “cultura” la sorregge? 
Una sottocultura puramente mercatista. Il lavoro è merce, la cultura è merce. L’ambiente perde la «tutela» e del patrimonio culturale si parla solo per farne «promozione», leggi «mercificazione». È l’abdicazione definitiva. La vera partita che stiamo giocando riguarda l’ultimo tassello di un mosaico che è stato descritto con efficacia da Luciano Gallino: in tutta Europa «la “costituzione” non scritta, ma applicata da decenni con maggior rigore di molte Costituzioni formali, … è volta a cancellare le conquiste che la classe lavoratrice e le classi medie avevano ottenuto nei primi trenta o quarant’anni dopo la guerra». Ecco, con la riforma Renzi si cerca di costituzionalizzare questo stato delle cose, di scrivere nella Costituzione formale i contenuti di quelle costituzioni non scritte.

Il governo non fa nulla contro l’evasione fiscale e lascia che il Vaticano non paghi le tasse, ma sostiene di tagliare i costi della politica con questa riforma. A quanto ammonta il risparmio?
Stiamo rottamando gli spazi di democrazia per risparmiare la miseria di 50 milioni di euro l’anno, questa l’unica cifra disponibile, stimata dalla Ragioneria Generale dello Stato in una nota del 28 ottobre 2014! Cinquanta milioni equivalgono a quanto spendiamo ogni giorno (non ogni anno!) in spesa militare, ad un terzo del costo dell’aereo voluto dal presidente del Consiglio, a meno di una sesto della somma che ogni anno devolviamo ai vitalizi degli ex consiglieri regionali! Bisognerebbe chiedere al governo perché non li chiede a Marchionne questi soldi. Ma Marchionne vota Sì.

La Costituzione è una tessitura, anche se viene cambiata solo la seconda parte, gli equilibri cambiano  e con essi il senso. Come cambia a lettura dell’articolo 11, «l’italia ripudia la guerra»?L’articolo 72 della Costituzione regola l’eventualità più drammatica che possa riguardare uno Stato: la deliberazione dello stato di guerra. Il testo attuale (quello del 1948) prevede che «Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari», mentre la riscrittura su cui siamo chiamati a votare è la seguente: «La Camera dei deputati delibera a maggioranza assoluta lo stato di guerra e conferisce al Governo i poteri necessari». Apparentemente c’è una rafforzamento della garanzia democratica, ed è infatti così che questa modifica viene raccontata dalla propaganda del governo. Ma riflettiamo un momento: tradotta in numeri la soglia passa, è vero, da 158 a 316 voti, ma da una parte il Senato non ha più voce in capitolo (e la caratterizzazione regionale non lo impedirebbe di certo: la Costituzione tedesca, per esempio, prevede che per fare la guerra sia necessario l’assenso del Bundesrat, cioè appunto la Camera delle regioni), e dall’altra i 316 voti ora necessari sono addirittura meno della maggioranza dei seggi che l’Italicum (ricordo ancora una volta: legge dello Stato vigente oggi) assegna al singolo partito che prende più voti alla Camera. Il che significa che la guerra la potrà, in teoria, dichiarare, da solo, il Partito Democratico, o la Lega o il Movimento 5 Stelle. Volendo, dunque, mettere le mani sull’articolo 72, non sarebbe forse stato più giusto, e prudente, prevedere una maggioranza qualificata dei due terzi, o dei tre quinti, dei componenti? Dunque, l’articolo 11 è in pericolo…

Quali riverberi ci saranno sull’articolo 9, visto che la riforma affida la promozione del patrimonio culturale alle Regioni, dopo che la riforma del Titolo V nel 2001 aveva già creato un contrasto fra tutela compito dello Stato e valorizzazione compito delle Regioni?
Non è vero che la riforma non tocchi la prima parte della Carta. L’articolo 5 dice che «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento». E invece qua le Regioni vengono di fatto annullate. E l’articolo 9 con loro: se vincesse il Sì nel Titolo V non si parlerebbe più di “tutela dell’ambiente”, ma di “ambiente”: addio dunque alla tutela, pilastro dell’articolo 9. E non si parla più di tutela del paesaggio – cioè di un contesto largo – ma di una puntiforme, antiquata «tutela dei beni paesaggistici», dal sapore commerciale e residuale. Torniamo a prima del 1939!

Lo Sblocca Italia e la legge Madia (in parte bocciata dalla Consulta) sono potenziate dalla riforma. Aumentano i rischi di colate di cemento per l’Italia che invece avrebbe bisogno di interventi di messa in sicurezza del territorio?
Il nuovo articolo 117 riserverebbe senza equivoci allo Stato la legislazione in fatto di «produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia e di infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale». La ratio di questa norma era stata anticipata dallo Sblocca Italia del governo Renzi, che la Corte ha giudicato incostituzionale proprio dove ha estromesso la voce delle Regioni da materie sensibili per la salute dei cittadini come gli inceneritori, o le trivellazioni: uno degli obiettivi della nuova Costituzione è evidentemente proprio quello di impedire, in futuro, referendum come quello sulle trivelle. E non è dunque un caso che la campagna del Sì si apra riesumando la più insostenibile delle Grandi Opere: il Ponte sullo Stretto di berlusconiana memoria. Ora, questa sottrazione di potere alle regioni in materia di governo del territorio appare particolarmente grave: perché va esattamente nella direzione della riforma del Senato, che è quella di allontanare i cittadini dalle decisioni, facendoli votare di meno e restringendo gli ambiti istituzionali in cui possono farsi sentire.

In che modo la riforma Franceschini interviene in questo quadro? Il ministo ha annunciato finanziamenti alla cultura, sono stati davvero stanziati e in che modo saranno impiegati?
Dario Franceschini ha smantellato la tutela pubblica del patrimonio: attuando così il programma di un governo che, simultaneamente, smantella la scuola pubblica, i diritti dei lavoratori, la Costituzione stessa. È stata una scelta precisa, perseguita con tenacia. Come ha detto qualche giorno fa Maria Elena Boschi – trovandosi in perfetto accordo con Matteo Salvini, sulle poltrone di Porta a Porta –: «Abbiamo fatto una riforma della pubblica amministrazione per ridurre le complicazioni sul territorio. (…). Va benissimo darsi altre sfide, io sono d’accordo diminuiamo le soprintendenze, lo sta facendo il ministro Franceschini. Aboliamole, d’accordo, lavoriamoci dal giorno dopo: disponibilissimi a discutere di tutto». Una volta tanto la Boschi ha detto la verità: la riforma Franceschini (una riforma concepita in odio alle soprintendenze, su mandato di un presidente del Consiglio che ha scritto che «soprintendente è la parola più brutta del vocabolario della burocrazia») ha dato il colpo di grazia alla tutela. Le soprintendenze cosiddette ‘olistiche’, la disarticolazione degli archivi delle vecchie soprintendenze, il rimescolamento deliberato di un personale che oggi si trova a tutelare un territorio che gli è ignoto, il dirottamento di tutti i fondi sui «grandi attrattori turistici», lo sbilanciamento estremo verso la valorizzazione, la sottoposizione ai prefetti, il mancato turn over (i 500 che prenderanno servizio nel 2017 non basteranno neanche a rimpiazzare l’ultima ondata di pensionamenti). Un disastro che i finanziamenti spot, una tantum, non riescono a cancellare.

Ne parliamo anche su Left in edicola dal 3 dicembre

 

SOMMARIO ACQUISTA