Tre generali, un evangelista senza nessuna esperienza e, all’agenzia che si prende cura dell’ambiente, un uomo della lobby petrolifera – e poi un banchiere al Tesoro. Se ci fosse stato bisogno di scrivere una sceneggiatura su una amministrazione Usa composta di “super-cattivi”, le scelte fatte a oggi dal presidente eletto Trump potrebbe essere un buon esempio al quale ispirarsi.
Gli ultimi due a unirsi alla squadra del miliardario che, sembra di capire, non ha nessuna intenzione di disfarsi della propria impresa, alimentando così i dubbi e le domande sugli innumerevoli conflitti di interesse, sono Scott Pruit, procuratore generale dell’Oklahoma, per la agenzia di protezione dell’ambiente e il generale in pensione John Kelly per la Homeland Security, il ministero dell’Interno – immigrazione, sicurezza, confini, anti terrorismo.
Il primo è una figura ambigua che ha avviato battaglie legali contro le regole imposte dall’EPA, l’agenzia che andrà a dirigere, in concorso con le grandi imprese petrolifere del suo Stato. Lui e altri procuratori generali di Stati a guida repubblicana hanno formato un’alleanza anti regole e limiti all’inquinamento e, in cambio, hanno ottenuto 16 milioni di dollari di finanziamenti alle proprie campagne politiche – il procuratore generale statale è una nomina elettiva. Pritt non crede nel riscaldamento climatico, detesta gli accordi di Parigi che Trump ha promesso di abbandonare – dando così un enorme vantaggio alla Cina, destinata a diventare, nel caso, la grande potenza delle rinnovabili. Insomma, Trump nomina un cerino acceso a gestire una pompa di benzina.
Il generale Kelly è una figura diversa. Non ambigua, non un politicante al soldo di qualcuno, ma un militare di esperienza come gli altri due nominati fino a oggi – James “mad dog” Mattis e Michael T. Flynn – ma con una visione delle cose che è un po’ quella di John Wayne in Berretti Verdi (un film sul Vietnam nel quale l’eroico militare di turno se la prendeva con “i colletti bianchi di Washington che ci fanno predere la guerra”). Tutti i generali pensano che in Iraq e Afghanistan, con più decisione, si sarebbe potuto vincere. Cosa e per fare cosa dopo non è chiaro e non è un loro problema. Kelly ha perso un figlio in Afghanistan ed è stato critico con diverse scelte fatte da Obama: dalle donne in combattimento al tentativo di chiudere Guantanamo. Da comandante delle forze che guardano all’America Latina ha gestito in parte la situazione al confine messicano, e questo dev’essere il motivo per cui è stato scelto.
L’altro, si dice, è che come i suoi colleghi, ha impressionato Trump con le sue certezze. Il presidente eletto vuole una squadra di gente che decida, manager e generali, che mettano in atto le sue scelte politiche e non stiano tanto a discutere. Se la scelta del Segretario di Stato cadesse sul generale Petraeus, un altro molto capace, saremmo a quattro generali in pensione. Quattro figure chiave per la politica estera che non hanno alcuna esperienza diplomatica. E che hanno condotto le guerre americane degli ultimi anni. Non esattamente una amministrazione non interventista, come quella promessa da Trump in campagna elettorale. Piuttosto un Bush 2.0 con 10 anni di ritardo.
Infine, a metà della settimana scorsa, abbiamo saputo che dell’ediliza popolare e urbana si occuperà Ben Carson, chirurgo di successo, evangelico fino al midollo e afroamericano. Questa terza caratteristica, oltra al suo conservatorismo religioso, sembra essere la ragione per la quale Trump lo ha scelto. Carson, che spiega il suo successo nella vita (è nato in un ghetto) con il costante intervento divino in suo favore, non ha alcuna esperienza di governo, men che meno di urbanistica o di gestione. Ma un nero, da qualche parte bisognava pur metterlo. A prescindere e nonostante Trump lo avesse insultato durante le primarie alle quali era candidato.
Quanto a insulti, Trump non smette di usare il suo account twitter per distribuirne: l’ultimo è il segretario dei metalmeccanici Chuck Jones, che aveva criticato l’accordo con la Carrier dell’Indiana, che Trump ha convinto a non chiudere una fabbrica in cambio di commesse pubbliche – si è detto che si salvavano più di mille posti, in realtà se ne salvano pochi più di 700 su più di duemila. La colpa delle fabbriche che chiudono, per Trump, è del sindacato.