La scelta del Colle (e di Renzi) è approvata dalla direzione del Pd. Con la minoranza votata alla «responsabilità». Comincia così la sfida per il congresso, che Renzi vuole subito, perché - dice - «è evidente che nell'arco dei prossimi mesi si andrà al voto»

È il giorno delle consultazioni per Paolo Gentiloni, e della direzione per il Partito democratico. Ma il governo è cosa fatta, e si attende solo la lista dei ministri. La direzione del Pd, infatti, perde qualsiasi interesse già dopo due minuti, quando Matteo Orfini comunica che in poco più di un’ora bisogna arrivare al voto su un documento, prima firma Guerini, e che la direzione dovrà quindi decidere se darà o meno piena fiducia a Gentiloni, che ha ricevuto l’incarico dal Colle. La direzione comincia alle 13 meno un quarto, più o meno, e alle 14, infatti, i capogruppo del Pd sono attesi dal presidente incaricato.

La fiducia è così, ovviamente, accordata. Rapidamente. Nessuno, a cose fatte, può infatti mettere in discussione la proposta del Colle, e nessuno lo fa. Giusto qualche osservatore e qualcuno della minoranza, prevalentemente sui social, suggerisce che sarebbe stato più giusto discutere mercoledì, prima che Renzi salisse al Colle per dimettersi, o discutere giovedì, prima che la delegazione dem salisse al Colle per decidere come affrontare la crisi di governo. Così, giusto per dare un senso agli organismi dirigenti. Ma nessuno insiste più di tanto. Anche perché, possiamo scommettere, non sarebbe cambiato molto.

La minoranza dem aveva infatti già detto – e oggi l’ha ribadito – che avrebbe assecondato, fidandosi, Mattarella, e che (parole di Speranza, ad esempio) sarebbe comunque spettato al Pd «l’onere della responsabilità», quella cioè di dar vita a un governo.

Il Pd così, compatto sul passaggio parlamentare, può rapidamente concentrarsi sulla partita che pare interessare di più, il congresso. L’intervento che apre le danze è quello di Roberto Speranza, il quale chiede che da palazzo Chigi, ma anche e soprattutto dal Nazareno, si dia la risposta giusta alla vittoria del No, «una forte discontinuità» cioè, che per ora però non vede «nell’arroganza» di chi banalizza l’esito del voto: «Non ci porta lontano l’illusione di chi pensa di avere in tasca il 40 per cento», dice Speranza. Che chiede a Renzi di non nascondersi «dietro gli insulti organizzati su internet o le manifestazioni qui sotto» e di dire chiaramente se vuole «buttare fuori chi ha votato No».

Le risposte che arrivano non dovrebbero lasciare molti dubbi (da Migliore a Fiano, i toni verso chi nel Pd ha votato No sono durissimi), ma per ora la minoranza dem non vuole evidentemente rompere. Non sa ancora come riprendersi il partito, ma non sa nemmeno come fare una scissione, ammesso che ne abbia voglia. E così chiede a Renzi, se vuole, di indicargli chiaramente la porta: almeno, insomma, si prendesse la responsabilità della rottura. Lui però non lo fa, ovviamente. Anzi. Renzi ha pur sempre bisogno di qualcuno da battere alle prossime primarie. E infatti lui invoca il congresso. Chiudendo la direzione, Renzi mette dunque una data di scadenza al governo Gentiloni (come già fatto da Orfini: «È inconcepibile che la legislatura arrivi al termine, non essendo più una legislatura costituente»), e a chiede che già domenica, l’assemblea del Partito, già convocata, avvii ufficialmente la stagione congressuale. 

Sono nato a Roma, il 23 febbraio 1988. Vorrei vivere in Umbria, ma temo dovrò attendere la pensione. Nell'attesa mi sposto in bicicletta e indosso prevalentemente cravatte cucite da me. Per lavoro scrivo, soprattutto di politica (all'inizio inizio per il Riformista e gli Altri, poi per Pubblico, infine per l'Espresso e per Left) e quando capita di cultura. Ho anche fatto un po' di radio e di televisione. Per Castelvecchi ho scritto un libro, con il collega Matteo Marchetti, su Enrico Letta, lo zio Gianni e le larghe intese (anzi, "Le potenti intese", come avevamo azzardato nel titolo): per questo lavoro non siamo mai stati pagati, nonostante il contratto dicesse il contrario.