Le notizie sulla presa di Aleppo sono terribili: migliaia di persone sono intrappolate in appena una manciata di distretti in mano ai ribelli si trovano ad affrontare i bombardamenti intensi che il governo siriano aveva annunciato.
Il New York Times parla di gente ammassata in pochi edifici, senza un luogo dove ripararsi dai bombardamenti. Le Nazioni Unite rendono noto che le forze di Assad avrebbero giustiziato sul posto 82 civili, undici erano donne, 13 erano bambini. L’Onu sostiene di avere prove considerevoli di questo massacro e non darebbe notizie così alla leggera. Jan Egeland, inviato speciale Onu per la Siria accusa russi e siriani di atrocità. I tweet e le immagini – non verificabili, nel senso che non siamo in grado di dire se siano di questi giorni – che arrivano da Aleppo sono impossibili da pubblicare per la loro durezza.
Le Nazioni Unite e la Croce Rossa hanno fatto appello per la salvaguardia di vite civili nelle ultime ore della battaglia di Aleppo. Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) ha reso noto che i civili intrappolati nelle zone di combattimento non hanno «letteralmente nessun posto sicuro». Infine, il Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha espresso allarme «per le notizie di atrocità nei confronti di un gran numero di civili». Né il regime di Assad, né la Russia sembrano essere preoccupati.
I bombardamenti continuano anche su Idlib mentre ieri la Bbc dava notizia di un possibile uso di armi chimiche contro l’Isis a Palmira, che i miliziani del Califfato hanno riconquistato. Diversi testimoni raccontano di aver visto cadaveri senza ferite. Si tratterebbe del quarto attacco con armi proibite dalle convenzioni internazionali. E ieri Human Rights Watch ha diffuso un rapporto nel quale denuncia un uso crescente di armi incendiarie, specie in Siria.
L’Europa e gli Stati Uniti assistono a questo massacro senza proferire parola. E l’Onu non sembra in grado di fare altro se non denunciare le atrocità. Mosca ribatte che anche i ribelli ne commettono. Si potrebbe obbiettare che, appunto, quelli sono i miliziani che Assad e Putin chiamano terroristi e che la differenza tra eserciti regolari e “terroristi” sta proprio nel modo in cui si gestiscono le situazioni come quella di Aleppo.
L’amministrazione Trump tende la mano a Putin con l’idea che questi aiuterà a combattere l’Isis a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo. Un errore di prospettiva enorme: l’aver abbandonato i civili (e anche i ribelli) al loro destino rischia di alimentare la propaganda islamista più estrema. Le foto sovrapposte della reazione dell’Occidente agli orribili attentati di Parigi (i capi di Stato che sfilano per le strade della capitale francese) e quelle di Aleppo sono lì a segnalare come e quanto il massacro siriano sia stato sottovalutato o ignorato. Era già successo a Srebrenica e in Ruanda – a Falluja si è trattato di una vicenda diversa, ma l’uso di armi vietate e la ferocia dell’azione militare Usa e britannica hanno contribuito non poco a far crescere al Qaeda in Iraq, quella che, dopo varie evoluzioni è diventato l’Isis.
Prima di Aleppo
Aprile-luglio 1994, il genocidio in Ruanda
Il genocidio dei tutsi ruandesi è un massacro durato 100 giorni tra aprile e luglio del 1994. Si stima che circa 500.000 e un milione di persone siano state passate per le armi. Il 70% dei tutsi e il 20% della popolazione totale del Ruanda. Anche una parte degli Hutu meno coinvolti nel massacro, quelli che con gergo occidentale chiameremmo “moderati” vennero uccisi. Vicini di casa uccisero i loro dirimpettai, mariti le mogli (perché minacciati, dissero),
Il genocidio è stato progettato dai membri della élite politica ruandese, circa 300mila persone vi parteciparono, che fossero milizie organizzate o membri dell’esercito, della gendarmeria o civili. Il genocidio ha avuto luogo nel contesto della guerra civile ruandese, cominciata nel 1990 e lascito della dominazione coloniale belga (forse la peggior potenza coloniale tra tutte).
Anche in quel caso l’Onu stette a guardare. La Missione di assistenza delle Nazioni Unite per il Ruanda era stato nel Paese dall’ottobre 1993 con il compito di controllare l’attuazione degli accordi di Arusha, firmati in Tanzania tra le parti coinvolte nel conflitto (il governo ruandese e il Ruandan Patriotic Front dei ribelli Tutsi). Il comandante del contingente, Roméo Dallaire, appreso dei piani per lo sterminio di massa e venuto a conoscenza dell’esistenza di depositi di armi chiese un intervento massiccio, ma il comando di peace-keeping Onu rifiutò la richiesta. L’anno prima dei soldati Usa erano stati uccisi in Somalia durante una missione simile, un precedente che aveva raffreddato gli entusiasmi per qualsiasi intervento di peace-keeping in conflitti civili. Il contingente francese, poi, amico del governo Hutu, evitò in ogni modo di proteggere i civili dal massacro. la carneficina si interruppe quando i ribelli, con il sostegno dell’esercito ugandese, occuparono la capitale Kigali e, a loro volta fecero fuggire milioni di persone, uccidendone altre migliaia. Gli Hutu passarono il confine verso quello che allora era lo Zaire e oggi è la Repubblica Democratica del Congo.
Luglio 1995, il massacro di Srebrenica
Nel luglio 1995, in piena guerra tra quel che rimaneva della Yugoslavia e la Bosnia, le forze serbo-bosniache entravano a Srebrenica. L’idea era quella di isolare il territorio ed espellere i bosniaci da un’area, quelle della autoproclamata Repubblica serba di Bosnia, che volevano annettere all’allora Serbia-Montenegro. Nella notte dell’11 luglio, una colonna di oltre 10.000 maschi uomini partì da Srebrenica occupata dalle truppe di Radko Mladic nel tentativo di fuggire. Vennero fermati in un bosco dai miliziani serbi, alcuni con insegne Onu, e vennero incoraggiati ad arrendersi.
Alcuni vennero giustiziati sul posto. Altri bosniaci sono stati costretti a lasciare Potočari, un villaggio nei pressi di Srebrenica, utilizzando la singoli omicidi e stupri come strumento di persuasione. Donne, bambini e anziani sono stati trasferiti a bordo di autobus verso il territorio bosniaco. Gli uomini e i ragazzi furono stati invece trasferiti in vari luoghi tra il 12 e 13 luglio e poi uccisi in serie e gettati in fosse comuni in campi di calcio, scuole e altri spazi pubblici. In quelle ore e in quei giorni un contingente di caschi blu olandesi, presente in città su mandato del consiglio di sicurezza, che aveva designato quella come un’area protetta, evitarono di intervenire: erano pochi, non ricevettero supporto dal comando regionale a cui avevano chiesto di intervenire con l’aviazione ed erano esausti – i serbo bosniaci li avevano isolati da settimane e c’era gran tensione, culminata con la presa di una postazione e la morte di un olandese nei giorni che precedettero il massacro. Il risultato furono 7mila morti, la strage di massa più grave e terribile capitata in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. Gli sfollati dalla pulizia etnica furono 20mila.