L'hanno paragonata a Rosa Parks. Solo che anziché su un autobus, il suo gesto di semplice rifiuto il nome della libertà di scelta, è arrivato tramite social network. La "ribelle", un mese fa, assieme all'annuncio che sarebbe uscita di casa senza il tradizionale abaya (un abito lungo, di tessuto nero, che copre le forme, comprese mani e piedi), posta una sua foto che la ritrae così: per strada, giacchetta alla moda, pantalone multicolore sopra la caviglia, e soprattutto, capo scoperto. Niente niqab, niente hijab, niente di niente. E per Malak al-Shehri, che con il suo tweet ha sfidato il restrittivo codice dell'abbigliamento vigente in Arabia Saudita, è scattato l'arresto. Il portavoce della mutawwīn, la polizia religiosa che ha il compito di vigilare sul "rispetto della virtù" e l'applicazione della sharia, nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa, ha raccontato che la ragazza, appena ventenne, avrebbe "perfino" parlato pubblicamente di relazioni intrattenute con uomini che non erano suoi parenti. Cosa proibitissima nel regno del golfo Persico. Il Paese wahhabita è infatti, uno degli stati nei quali vige un codice comportamentale fra i più restrittivi del mondo musulmano. Senza l'espressa concessione dell'uomo, la donna non può uscire, viaggiare, guidare, fare la spesa, firmare un contratto.  E perfino sottoporsi a un'operazione. E negli ambienti pubblici, dal lavoro, alla scuola, la separazione fra i due sessi è rigidissima. Un gesto, dunque, quello di Shehri (che significa angelo), che non poteva non scandalizzare i sauditi. Tanto che in molti, soprattutto uomini, ne stanno chiedendo l'esecuzione via Twitter, con l'hashtag che, tradotto, sarebbe "Chiediamo l'arresto dell'angelo ribelle". Ma oltre agli utenti inferociti, che ne chiedono la morte nelle maniere più violente, si sono mossi anche migliaia di sostenitori.   Sono un centinaio, ogni mese, le decapitazioni eseguite nel regno. Con una popolazione di quasi 29 milioni di persone, l'Arabia Saudita rischia di raggiungere e perfino superare le oltre duemila esecuzioni capitali all'anno. Ma qualcosa nel Paese si sta muovendo. A settembre, a seguito del rapporto di denuncia di Human Rights Watch pubblicato a luglio, una petizione aveva raccolto decine di migliaia di donne, che chiedevano la fine del sistema di "tutela" maschile. I "tutori", o "guardiani", possono agire e disporre pressoché senza limiti delle "loro" donne, e in caso di abuso, sempre in virtù del suddetto codice, è purtroppo molto difficile che venga riconosciuto colpevole. La petizione ha avuto ampia risonanza internazionale. Forse per questo, a fine novembre, il principe saudita Al-Waleed bin Talal, si è schierato dalla parte delle donne, difendendo il loro diritto a guidare. «Stop al dibattito, è giunto il momento che le donne guidino». Nel suo lungo appello, il 41esimo uomo più ricco del mondo, lo definisce un «atto sleale, più restrittivo rispetto a ciò che è legalmente consentito dai principi della religione», ed elenca anche i benefici economici che deriverebbero dall'eliminazione di questo dogma, al suo Paese, unico al mondo nel quale persiste ancora questo divieto. «Oltre un milione di signore in Arabia Saudita per muoversi sono obbligate a dipendere da autisti privati o di un taxi. E se un marito trova il tempo per portare con la propria auto la moglie, questo significa che sarà assente dal lavoro, compromettendo la produttività». Ogni famiglia saudita spenderebbe mediamente 950 euro al mese per pagare il servizio di autista. Soprattutto, Al-Waleed, conosciuto nell'establishment  per la sua franchezza, ricorda che «l'Arabia Saudita è stata paziente e ha consentito alla società di evolversi secondo i propri tempi e desideri», scrive. Ma «impedire alle donne di guidare è oggi una questione di diritti, come lo era impedirle di ricevere un’istruzione o avere un’identità indipendente. Sono tutti atti iniqui da parte di una società tradizionale, molto più restrittivi di quando non sia previsto dai precetti religiosi. Il divieto di guidare è fondamentalmente una violazione dei diritti della donna». Naturalmente, per tutto il resto, c'è tempo.        

L’hanno paragonata a Rosa Parks. Solo che anziché su un autobus, il suo gesto di semplice rifiuto il nome della libertà di scelta, è arrivato tramite social network.

La “ribelle”, un mese fa, assieme all’annuncio che sarebbe uscita di casa senza il tradizionale abaya (un abito lungo, di tessuto nero, che copre le forme, comprese mani e piedi), posta una sua foto che la ritrae così: per strada, giacchetta alla moda, pantalone multicolore sopra la caviglia, e soprattutto, capo scoperto. Niente niqab, niente hijab, niente di niente. E per Malak al-Shehri, che con il suo tweet ha sfidato il restrittivo codice dell’abbigliamento vigente in Arabia Saudita, è scattato l’arresto.

Il portavoce della mutawwīn, la polizia religiosa che ha il compito di vigilare sul “rispetto della virtù” e l’applicazione della sharia, nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa, ha raccontato che la ragazza, appena ventenne, avrebbe “perfino” parlato pubblicamente di relazioni intrattenute con uomini che non erano suoi parenti. Cosa proibitissima nel regno del golfo Persico. Il Paese wahhabita è infatti, uno degli stati nei quali vige un codice comportamentale fra i più restrittivi del mondo musulmano. Senza l’espressa concessione dell’uomo, la donna non può uscire, viaggiare, guidare, fare la spesa, firmare un contratto.  E perfino sottoporsi a un’operazione. E negli ambienti pubblici, dal lavoro, alla scuola, la separazione fra i due sessi è rigidissima.

Un gesto, dunque, quello di Shehri (che significa angelo), che non poteva non scandalizzare i sauditi. Tanto che in molti, soprattutto uomini, ne stanno chiedendo l’esecuzione via Twitter, con l’hashtag che, tradotto, sarebbe “Chiediamo l’arresto dell’angelo ribelle”.

Ma oltre agli utenti inferociti, che ne chiedono la morte nelle maniere più violente, si sono mossi anche migliaia di sostenitori.

 

Sono un centinaio, ogni mese, le decapitazioni eseguite nel regno. Con una popolazione di quasi 29 milioni di persone, l’Arabia Saudita rischia di raggiungere e perfino superare le oltre duemila esecuzioni capitali all’anno.

Ma qualcosa nel Paese si sta muovendo. A settembre, a seguito del rapporto di denuncia di Human Rights Watch pubblicato a luglio, una petizione aveva raccolto decine di migliaia di donne, che chiedevano la fine del sistema di “tutela” maschile. I “tutori”, o “guardiani”, possono agire e disporre pressoché senza limiti delle “loro” donne, e in caso di abuso, sempre in virtù del suddetto codice, è purtroppo molto difficile che venga riconosciuto colpevole. La petizione ha avuto ampia risonanza internazionale.

Forse per questo, a fine novembre, il principe saudita Al-Waleed bin Talal, si è schierato dalla parte delle donne, difendendo il loro diritto a guidare. «Stop al dibattito, è giunto il momento che le donne guidino». Nel suo lungo appello, il 41esimo uomo più ricco del mondo, lo definisce un «atto sleale, più restrittivo rispetto a ciò che è legalmente consentito dai principi della religione», ed elenca anche i benefici economici che deriverebbero dall’eliminazione di questo dogma, al suo Paese, unico al mondo nel quale persiste ancora questo divieto. «Oltre un milione di signore in Arabia Saudita per muoversi sono obbligate a dipendere da autisti privati o di un taxi. E se un marito trova il tempo per portare con la propria auto la moglie, questo significa che sarà assente dal lavoro, compromettendo la produttività». Ogni famiglia saudita spenderebbe mediamente 950 euro al mese per pagare il servizio di autista.

Soprattutto, Al-Waleed, conosciuto nell’establishment  per la sua franchezza, ricorda che «l’Arabia Saudita è stata paziente e ha consentito alla società di evolversi secondo i propri tempi e desideri», scrive. Ma «impedire alle donne di guidare è oggi una questione di diritti, come lo era impedirle di ricevere un’istruzione o avere un’identità indipendente. Sono tutti atti iniqui da parte di una società tradizionale, molto più restrittivi di quando non sia previsto dai precetti religiosi. Il divieto di guidare è fondamentalmente una violazione dei diritti della donna».

Naturalmente, per tutto il resto, c’è tempo.

 

 

 

 

Impicciarsi di come funzionano le cose, è più forte di lei. Sarà per questo - o forse per l'insanabile e irrispettosa irriverenza - che da piccola la chiamavano “bertuccia”. Dal Fatto Quotidiano, passando per Narcomafie, Linkiesta, Lettera43 e l'Espresso, approda a Left. Dove si occupa di quelle cose pallosissime che, con suo estremo entusiasmo invece, le sbolognano sempre: inchieste e mafia. E grillini, grillini, grillini. Dalla sua amata Emilia-Romagna, torna mestamente a Roma, dove attualmente vive.