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Carotti indaga visivamente i meccanismi della collettività per raccontarci la pancia del Paese e un’epoca in crisi sedotta da irrazionalità e populismi.
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«Semo le redini dell’antico impero, solo che ar posto de spade c’avemo spranghe de fero…quanno arrivamo nun c’aspettate, datece retta: corete, scappate!» gridavano come fossero un esercito i tifosi ultras di un film dei primi anni 90. Ecco, è proprio a quei tifosi che la mostra Dove sono gli ultras di Cristiano Carotti (alla White Noise Gallery a Roma fino al 14 gennaio) sembra aver rubato i vessilli. Lo scopo del lavoro di Carotti è quello di raccontare, attraverso l’estetica sociale del gruppo – brutale, primitiva e violenta – il cedere dell’Occidente all’irrazionalità del simbolo, alle urla piuttosto che al dialogo, alla definizione dell’identità sulla base della logica del nemico, del Noi contro Loro.
Croci, pantere, diavoli, teschi, orsi, bulldog diventano così non solo dei totem per definire l’appartenenza a una fazione piuttosto che ad un’altra, ma veri e propri oggetti di culto che testimoniano la fede incondizionata e cieca dell’ultrà, la stessa che fede cieca e incondizionata che finisce per travolgere anche molti cittadini di fronte alla politica e che segna inesorabilmente la crisi della democrazia.
Partendo da questo repertorio Carotti, indaga quindi i meccanismi della collettività, fra archetipi, inconscio ed echi junghiani, per raccontarci la “pancia del Paese” e un’epoca come la nostra in preda ad una forte crisi identitaria e sedotta da irrazionalità e populismi.
La radicalità del gesto espressivo, la scelta della pittura ad olio stesa in maniera materica su stoffe, sciarpe, giubbotti, bandiere – dall’aspetto chiaramente e volutamente reliquiario – e la musica di Rodrigo D’Erasmo degli Afterhours che sostituisce il naturale sfondo sonoro dei cori ultras, rafforzano il distacco del simbolo dalla propria funzione calcistica per esaltarne la dimensione emozionale e farci riflettere sul meccanismo sociale che si innesca nel popolo quando si riduce ad essere forse solo folla.
Carotti indaga visivamente i meccanismi della collettività per raccontarci la pancia del Paese e un’epoca in crisi sedotta da irrazionalità e populismi.