Renzi ha messo una data di scadenza al governo Gentiloni. E non solo perché vuole tornare presto a palazzo Chigi. Chiudendo la legislatura prima che si svolgano i referendum della Cgil, infatti, può evitare un'altra bocciatura: quella sul jobs act, sui voucher e l'abolizione dell'articolo 18

La bomba l’ha sganciata Poletti, svelando ciò che Left aveva tristemente subodorato – tant’è che sul prossimo numero in edicola, Tiziana Barillà chiede direttamente a Maurizio Landini cosa farà se il Pd dovesse spingere per far finire la legislatura anticipatamente, con una tempistica utile a far slittare il referendum sul jobs act, quello sui voucher e gli altri quesiti “sociali” su cui la Cgil ha raccolto oltre tre milioni di firme. Perché questa, dice Poletti, è l’idea dei più. «Mi sembra», ha detto il ministro ai cronisti, «che l’atteggiamento prevalente sia quello di andare a votare presto. E se si dovesse andare ad elezioni anticipate diventa ovvio che per legge l’eventuale referendum sul jobs act sarebbe rinviato».

Intendiamoci: non è affatto detto che vada così, perché non sono Renzi e Poletti da soli a determinare i tempi di scioglimento delle camere (non è detto che Renzi riesca come vorrebbe a telecomandare governo e legislatura a distanza). C’è ad esempio la minoranza dem (con Speranza che replica al ministro: «Più che invocare le urne per evitare che si svolga il referendum, è necessario intervenire subito sul Jobs act, a partire dai voucher») e ci sono poi gli altri gruppi parlamentari, ognuno con il suo calendario in mente, e un accordo sulla legge elettorale che – salvo smentire mesi di retorica sulla necessità di una sola legge per due Camere – non sarà poi così rapido da raggiungere.

Ma l’idea è dunque quella. Stamattina era stata anticipata, prima che Poletti confermasse, da alcuni retroscena. Su La Stampa, Fabio Martini ha fatto dire a un anonimo renziano: «Dopo la sconfitta del Sì al referendum costituzionale, non è il caso di rischiare un’altra batosta». Quindi: o si cambia almeno un po’ la legge per disinnescare il referendum (difficile, però, senza disconoscere la legge, pilastro del governo Renzi) o – e Renzi preferirebbe – si tiene a mente la scadenza, indicandola come termine massimo della legislatura.

Una scadenza molto ravvicinata, che obbligherà quindi il Pd a fare in fretta il congresso e le primarie (che Renzi vuole – come vi raccontiamo sempre su Left in edicola da sabato – per ritrovare la spinta prima del voto), e che avrà un primo passaggio l’11 gennaio, quando la Corte Costituzionale esaminerà l’ammissibilità delle richieste della Cgil, con i tre referendum popolari abrogativi già accolti dall’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione. “Abrogazione delle disposizioni in materia di licenziamenti illegittimi”, “Abrogazione delle disposizioni limitative della responsabilità solidale in materia di appalti” e “Abrogazione delle disposizioni sul lavoro accessorio (voucher)”, questi sono i quesiti che Landini riempie di un ulteriore significato, dopo il referendum ignorato del 4 dicembre: «Visto che non capiscono l’esito del voto del 4 dicembre, o fan finta di non capire», dice alla nostra Barillà, «penso che serva un altro voto in cui si esprima direttamente un giudizio negativo sulle politiche sociali del governo. Evidentemente il voto di giovani e donne, di chi sta peggio e non ha accettato queste politiche non è bastato».


La legislatura, insomma, dovrebbe finire prima di aprile
. O prima della data che si assegnerà alla consultazione. Questo perché la legge 352 del 1970 stabilisce che «ricevuta comunicazione della sentenza della Corte costituzionale, il Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei Ministri», indica con decreto il referendum, fissando la data di convocazione «in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno». E però, «nel caso di anticipato scioglimento delle Camere», continua la legge, ben chiara nella testa di Poletti, «il referendum già indetto si intende automaticamente sospeso», destinato a slittare ben un anno dopo, almeno, le elezioni. Renzi, così, non rischierebbe di veder demolita, dopo la riforma costituzionale, un’altra sua legge-manifesto.

Sono nato a Roma, il 23 febbraio 1988. Vorrei vivere in Umbria, ma temo dovrò attendere la pensione. Nell'attesa mi sposto in bicicletta e indosso prevalentemente cravatte cucite da me. Per lavoro scrivo, soprattutto di politica (all'inizio inizio per il Riformista e gli Altri, poi per Pubblico, infine per l'Espresso e per Left) e quando capita di cultura. Ho anche fatto un po' di radio e di televisione. Per Castelvecchi ho scritto un libro, con il collega Matteo Marchetti, su Enrico Letta, lo zio Gianni e le larghe intese (anzi, "Le potenti intese", come avevamo azzardato nel titolo): per questo lavoro non siamo mai stati pagati, nonostante il contratto dicesse il contrario.