Il simpatizzante con cui Viet Thanh Nguyen ha vinto il premio Pulitzer 2016, fa rivivere gli ultimi giorni di Saigon da un punto di vista inedito, quello di una spia vietnamita, addestrata nel Nord comunista e infiltrata nell’esercito americano. Un punto di vista doppio, affascinante e inquietante al tempo stesso, perché «il Capitano» è un doppiogiochista disposto a tutto, ma riesce a farci vedere tutta la violenza che si annida nel pregiudizio, nel razzismo, nell’abuso che i colonialisti francesi prima e gli americani poi hanno perpetrato sulla popolazione vietnamita. Il protagonista stesso di questo potente romanzo di Thanh Nguyen, pubblicato in Italia da Neri Pozza, è figlio illegittimo di un prete francese e di una giovanissima vietnamita e porta tutti i segni di quella violenza. «Sono un dormiente, un fantasma, un uomo con due facce», dice di sé, mentre guarda con astio quegli aerei Usa che proiettano sul terreno ombre a forma di croci, simbolo di una religione di morte.
La rivolta del protagonista, apparentemente ligio al servizio de «Il Generale» (un americano che crede in dio, nella patria, nella famiglia) ribolle nel suo sguardo spregiudicato, dissacrante, a tratti sarcastico, che non ammette infingimenti. Anche da qui siamo partiti per la nostra conversazione con l’autore di questo romanzo in cui risuonano Conrad e Le Carré, Greene e Orwell, pur non assomigliando a nessuna delle loro opere. Un romanzo dove si racconta come gli americani hanno reso il Vietnam una terra desolata con una guerra sleale e feroce in cui usavano il napalm, non riuscendo a spezzare la resistenza vitale di un popolo pagano che si racconta nato dai draghi e dalle fate.
Di fronte a guerre devastanti come quella americana in Vietnam, che solo nel Nord del Paese causò un milione e centomila morti, mancano le parole. L’uso del paradosso e della satira le sono serviti per uscire da quest’impasse e affrontare la verità?
Esistono già molti libri che testimoniano il dolore di questa e di altre guerre, in modo serio, drammatico carico di malinconia. Avrei potuto scrivere un altro di quei libri, e in effetti ho fatto qualcosa del genere. Ma è accaduto un fatto curioso. Ad un certo punto ho creato un personaggio che è serio, drammatico e malinconico, ma è anche sarcastico, cinico e ironico. Il romanzo ha assunto la sua voce, è cambiato il tono che è diventato sferzante, a tratti perfino comico. Raccontare barzellette su questioni terribilmente gravi può essere un modo per riportare l’attenzione su realtà che non vogliamo affrontare, per renderle più facili da affrontare. È una via d’uscita e un modo per dire la verità, come accennava lei.
Il protagonista racconta così la propria infanzia: «Potevo essere definito “figlio naturale”, mentre in tutti gli altri Paesi che conosco la legge mi qualifica piuttosto come figlio illegittimo. Mia madre mi chiamava il figlio dell’amore, ma su questo non mi piace soffermarmi. Alla fine era stato mio padre, ad avere ragione piú di tutti. Lui, non mi aveva mai chiamato in nessun modo». Anche per questo il Capitano odia suo padre, prete cattolico e francese, rifugiandosi nei valori di sua madre, giovane vietnamita. Ma non del tutto?
Il protagonista ha una visione doppia e dicotomica sulla maggior parte delle cose. Vede suo padre come colonizzatore francese e prete pedofilo, mentre sua madre è il volto buono, la vietnamita innocente e colonizzata. Muore giovane e diventa un’immagine idealizzata. Per lui incarna il sacrificio, la resistenza, la generosità. In effetti è l’unico essere umano ad interessarsi davvero di lui mentre per il padre sacerdote e per molti altri è solo un figlio bastardo. Perciò lui la adora. Anche se gli sembra una di quelle figure mitologiche di cui la Bibbia dice che erediteranno la terra (ma non nelle loro vite terrene!). Il suo sacrificio silenzioso e la sua nobile resistenza sono ciò che la Chiesa cattolica e la tradizione vietnamita affibbiano alle donne, un ruolo che gli suscita sensazioni contrastanti, lo venera e lo respinge, anche per se stesso. Ecco perché si rivolge alla resistenza laica del marxismo, che vuole trasformare il mondo dal basso. Così il mio protagonista rifiuta la narrazione cattolica e abbraccia quella comunista, per scoprire poi che in fondo ha in comune con la religione un’idea di sacrificio e “martirio”. Dice la voce narrante ad un certo punto: «Lo zio Ho afferma che “non esiste niente di piú prezioso dell’indipendenza e della libertà”. Erano parole per le quali eravamo pronti a morire».
Lei è nato nel 1971 in Vietnam. Rifugiato di seconda generazione, oggi insegna English and American Studies alla Ucla, l’università della California. Da giovane vietnamita, cresciuto negli Stati Uniti, quale realtà ha vissuto?
Ero un americano in famiglia, agli occhi dei miei genitori, e un vietnamita nel mondo fuori da quella casa. Ho imparato ad essere un attento osservatore, ovunque mi trovi. Quella sensazione di “estraneità”, di non appartenenza, mi è tornata utile per costruire il protagonista de Il simpatizzante. Vivere non sentendomi mai a casa a volte è scomodo, ma ci sono cresciuto. E mi regala un punto di vista originale, forse unico, su entrambe le culture, americana e vietnamita.
In questo quadro, essere il primo vietnamita a vincere il Pulitzer cosa ha significato per lei?
Questo premio ha reso orgogliosi tanti vietnamiti che vivono negli Usa, compresi i miei genitori. Sono molto felice per loro. Quanto a me, ho avuto maggiore visibilità, più attenzione della gente per ciò che ho da dire, anche se quello che ho da dire che non è diverso da quello che avevo da dire prima di vincere il Pulitzer. Approfitto di questi nuovi riflettori per far arrivare il mio punto di vista ad pubblico più vasto, nelle interviste, negli articoli che scrivo sui giornali, cerco di esprimere la mia visione per un mondo più giusto e un’arte più impegnata.
La letteratura della diaspora vietnamita è cresciuta molto. Quali autori trova più interessanti?
È un fenomeno in grande crescita, la verità è che li trovo tutti interessanti!
Il suo nuovo libro s’intitola Rifugiati. Come nasce questo lavoro?
Prima de Il simpatizzante avevo scritto alcuni racconti su questo tema. Sono storie di rifugiati vietnamiti e sulle persone che incontrano negli Stati Uniti. Parlo di profughi ma anche di americani che tornano in Vietnam. Volevo scrivere storie che parlano della complessità della vita vietnamita e di tutte le sue sfumature: una realtà poco conosciuta fuori dal Paese dove sono nato e dalle comunità della diaspora. Con questo titolo, I rifugiati, vorrei mettere in primo piano la loro esperienza. Credo che la disseminazione del popolo vietnamita abbia anticipato l’attuale crisi globale dei rifugiati. Ma c’è anche qualcosa di più personale. Ero e rimango un rifugiato, non sono un immigrato. I rifugiati sono esseri umani uguali agli altri, oggi va detto e ripetuto più che mai. I vietnamiti sono persone che si sono inserite con successo in molti Paesi, il che porta i loro nuovi concittadini a dimenticare che erano profughi. Annullando questo passato le persone guardano con sospetto ai nuovi profughi, come se fossero fondamentalmente diversi dai vietnamiti che hanno conosciuto un tempo.
La campagna elettorale di Trump è stata intrisa di razzismo, misoginia, slogan che rimandano al suprematismo bianco. Come immagina il futuro delle minoranze negli Usa con lui presidente?
È un futuro che assomiglia ad un brutto passato. Lo abbiamo già visto. Xenofobia, misoginia, suprematismo bianco sono stati i valori imperanti per secoli negli Usa. Solo negli ultimi decenni abbiamo avuto un po’ di respiro, come risultato di una lunga, aspra, lotta politica. Ci sono con tutta evidenza persone che vogliono riportare in auge un capitalismo senza freni (che oggi va oltre nello sfruttamento della classe operaia puntando a distruggerla e a sostituirla con l’automazione); c’è chi vuole restaurare il dominio e il controllo degli uomini sulle donne, c’è chi vuole chiudere le frontiere alle persone che non sono di razza bianca, c’è chi vorrebbe i campi di concentramento per presunti dissidenti, che di solito non sono bianchi. Non dimentichiamo che Franklin Delano Roosevelt ha usato il termine «campi di concentramento» per i giapponesi americani durante la seconda guerra mondiale, prima che diventasse una parola impronunciabile perché nazista. Se pensiamo che tutto questo sia profondamente ingiusto dobbiamo unirci e lottare. L’aspetto positivo è che avendo vissuto un decennio di speranza, abbiamo anche memoria di momenti migliori e questo ci aiuta a stare in guardia e ci dà una motivazione forte. Detto questo, purtroppo, ci aspettano quattro anni difficili e forse anche di più. Non solo per le donne o per le classi più povere e senza lavoro, non solo per le minoranze di ogni tipo. Il mondo che Donald Trump vuole porta con sé guerre e catastrofi climatiche. Lottare contro Trump, non significa solo combattere per noi stessi. Significa proteggere l’ambiente e la società dove vivono anche Trump e i suoi sostenitori. Lottiamo anche per salvare da se stessi i nostri nemici.