Il suo amore per la lingua italiana non si è tradotto “solo” in un’opera monumentale come il vocabolario che porta il suo nome, ma ha portato Tullio De Mauro anche a rimboccarsi le maniche impegnandosi, in prima persona, a difendere la scuola pubblica, la ricerca, la cultura umanistica (senza svalutare quella scientifica). Lo ha fatto da accademico, in cinquant’anni di insegnamento universitario, come polemista, denunciando l’analfabetismo di ritorno dovuto all’affossamento dell’università e della scuola pubblica, che il professore ha cercato di difendere in ogni modo, anche come ministro dell’Istruzione dal 2000 al 2001. L’eredità che Tullio De Mauro, scomparso oggi all’età di 84 anni, è enorme. La sua tenacia e la sua autorevolezza nel portare avanti battaglie per lo svecchiamento dei programmi scolastici e dell’educazione linguistica, purtroppo, non hanno avuto ascolto da parte della classe di governo italiana, da anni impegnata nel sottrarre risorse alla scuola e all’università. Lui però non si stancava di ripetere che«spendere in scuola e in educazione è un investimento per la democrazia», come ha scritto in Parole di giorni un po’ meno lontani (il Mulino, 2012).
Intellettuale finissimo, Tullio De Mauro pensava che la cultura non dovesse essere elitaria, ma alta, diffusa e condivisa. Alla critica di un’«accezione restrittiva» del termine cultura aggiungeva la denuncia di una cultura italiana ancora ideologica, troppo dominata da quello che fu definito da Prezzolini come partito degli intellettuali. Negli ultimi anni, in particolare, De Mauro era molto preoccupato per l’analfabetismo di ritorno: più di 2 milioni di adulti sono analfabeti completi, quasi 15 milioni sono semianalfabeti, altri 15 milioni sono a rischio di ripiombare in tale condizione, denunciava. Ed era sempre più preoccupato per lo scadimento progressivo dei programmi scolastici non in grado di stimolare lo sviluppo della coscienza storica e del pensiero critico necessari alla formazione intellettuale e civile delle giovani d’oggi, in un’orizzonte sempre più internazionale e globalizzato. Anche per questo sosteneva, con Martha Nussbaum, l’importanza formativa della cultura umanistica, senza svalutare – come accennavamo – il, sapere tecnico e scientifico. «Occorre fare attenzione – avvertiva il professore – non si tratta di negare il nesso fra scuola e sviluppo economico, come fa chi pensa e dice che «con la cultura non si mangia». Si tratta di leggerlo nella complessità delle vicende educative e storiche». E non smetteva di ribadire l’importanza della secolarizzazione come volano d sviluppo: «Nel 1950 la popolazione mondiale aveva un’istruzione media di 3,2 anni (quasi esattamente il dato italiano del tempo) – ha scritto De Mauro – nel 1980 di 5,3 anni, nel 2010 di 7,8 anni. Un progresso enorme».
Nato nel 1931 a Torre Annunziata, Tullio De Mauro, si laureò in Lettere classiche a Roma nel 1956. Ha insegnato all’Orientale di Napoli e per lunghi anni è stato docente di Glottologia a l’Università La Sapienza di Roma. Moltissime le sue opere, a cominciare dalla Storia linguistica dell’Italia unita, pubblicata da Laterza nel 1963. Ma soprattutto si deve a lui l’ideazione e la direzione del Grande Dizionario Italiano dell’Uso, in sei volumi pubblicato da Utet nel 1999, che già nel 2000 fu integrato da un volume di addenda comprendente 3.700 parole nuove. Tutto il suo lavoro lessicografico si situa nell’orizzonte mobile della lingua viva, cercando i lemmi più innovativi. Ma importante è stato anche il suo lavoro di ricerca sul passato. Nel 2006, per esempio, pubblicò per i tipi de Il Mulino Parole di giorni lontani dedicato alla lingua della sua infanzia. Un libro in cui riemergevano memorie di quando era bambino. In quel volume, De Mauro ricorda divertito che da piccolo pensava che «perbenito mussolini, eja eja alalà» fosse il participio passato di io perbenisco, tu perbenisci e che «il frutto del seno tuo Gesù» potesse avere a che fare con il seno e coseno che riempivano i pomeriggi di studio del fratello più grande. Capire le parole per lui era una passione , poi diventò una professione. «Linguisti non si nasce, si diventa».