L'Unità pare chiuderà (ancora). Il Partito perde iscritti (ancora). Le due cose sono ovviamente legate. E, con tutte le attenuanti del caso - la crisi dei giornali, la crisi dei partiti - le responsabilità sono politiche

Come ogni anno nel Pd si cominciano a contare gli iscritti. Le prime indiscrezioni parlano di un flop, con la “paralisi”, scrive Repubblica, del Pd siciliano, soprattutto, e con le altre regioni, però, ugualmente in forte calo, con la sola Toscana a tenere un po’ su i conti.

Le cose sembrerebbero peggiorate rispetto all’anno scorso (quando pure non mancarono, ricorderete, le polemiche tra minoranza e premier-segretario). L’Emilia, ad esempio, che ora si appresta a dimezzare gli iscritti rispetto al 2013 (quando erano 76mila) già nel 2015 era scesa a 48mila. La dichiarazione con cui il vicesegretario Lorenzo Guerini risponde ai dati di oggi, infatti, è simile a quella dell’anno scorso: «Recupereremo», dice Guerini, convinto che «i dati che provengono dai territori» facciano invece ritenere che «il numero di iscritti nel 2016 sarà tendenzialmente in linea con quello dell’anno precedente».

La polemica – di suo non nuovissima – arriva però il giorno dopo un altro capitolo non proprio piacevole per il Partito democratico. La società editrice dell’Unità, infatti, ha annunciato licenziamenti collettivi e il giornale è a rischio chiusura. I giornalisti stanno scioperando, e non è ovviamente detto (speriamo) che qualche soluzione, almeno ponte, alla fine si trovi. Ma la crisi è seria. E porta con sé non solo responsabilità manageriali (enormi, accusano i giornalisti, sulle cattive spese o sul conflitto tra la direzione del cartaceo e quella del sito, che è cosa a sé) ma anche – ovviamente – politiche.

Colpisce, in questo senso, la lettera resa pubblica da Sergio Staino e indirizzata a Matteo Renzi. È di alcune settimane fa ma, dice Staino, «è ancora attuale». Nell’invitarvi a leggerla tutta – e a esprimere, come facciamo noi, solidarietà ai giornalisti e ai lavoratori dell’Unità – alcuni passaggi colpisco fortissimo. Tipo quello in cui Staino elenca alcune impreviste – da lui – difficoltà umane: «Parlare e trattare con il tesoriere del Pd Bonifazi e con l’Amministratore Delegato Stefanelli», scrive a Renzi, «ti assicuro è esperienza che non augurerei a peggior nemico». Ma soprattutto colpiscono i passaggi sulle difficoltà politiche, sempre (forse, a questo punto colpevolmente) non previste dal direttore: «Mi sono reso conto», continua Staino, «che nessuno nel partito è interessato a questo foglio».

«Ho un buon rapporto di confronto con alcuni compagni a te non troppo vicini», continua il direttore, «da Macaluso a Reichlin, a Cancrini, a Cuperlo, Veltroni, Fassino e tanti altri, che lo seguono, lo commentano, mi aiutano. Ma tu e i tuoi? Zero. Credo che anche tu sia fra quelli che neanche scorre la prima pagina del giornale eppure, quando mi hai congedato a Palazzo Chigi, hai urlato allegramente: “Voglio un giornale bello, di tante pagine e non preoccuparti per i soldi… quelli ci sono!” Chissà se te lo ricordi».

L’accusa insomma è seria. E evidente dovrebbe essere il nesso con il calo degli iscritti.

Perché la crisi è di tutti i partiti così come è di tutti i giornali (dell’Unità importa poco anche fuori), ma dallo scambio (anzi dalla lettera, perché nessuno ha ancora risposto) escono tutte le crepe nella comunità dei dem. Che forse, è il punto, non è più tale. E tutto si tiene insieme. Un giornale utile solo come velina (ruolo peraltro – purtroppo – non rifiutato, anche se Staino oggi vuole descrivere un giornale-laboratorio) e un partito che ha i suoi unici momenti di confronto in diretta streaming, in direzioni che sembrano più moderne conferenze stampa del segretario. Si asseconda così, inconsapevolmente o meno, la crisi della politica. Che se non viene praticata (neanche online), a vantaggio della sola comunicazione, diventa veramente inutile. Anche per chi ostinatamente stava ancora lì, a farla, con tutti i suoi difetti, non solo a ridosso di una competizione elettorale.

Sono nato a Roma, il 23 febbraio 1988. Vorrei vivere in Umbria, ma temo dovrò attendere la pensione. Nell'attesa mi sposto in bicicletta e indosso prevalentemente cravatte cucite da me. Per lavoro scrivo, soprattutto di politica (all'inizio inizio per il Riformista e gli Altri, poi per Pubblico, infine per l'Espresso e per Left) e quando capita di cultura. Ho anche fatto un po' di radio e di televisione. Per Castelvecchi ho scritto un libro, con il collega Matteo Marchetti, su Enrico Letta, lo zio Gianni e le larghe intese (anzi, "Le potenti intese", come avevamo azzardato nel titolo): per questo lavoro non siamo mai stati pagati, nonostante il contratto dicesse il contrario.