«Comunque in Italia non c’è ancora l’obbligo di dare lavoro». Mi ha detto così, stavamo discutendo di referendum e articolo 18. Di diritti e lavoro. E lui, bravo come me, onesto come me, in ospedale come me a trovare un amico grande, mi ha risposto così. E io l’ho tranquillizzato: «Sì certo, non c’è l’obbligo di dare lavoro». Poi non ho smesso di pensare a quella frase e a quello che gli deve sembrare il mio parlare. Obbligarlo a dare lavoro. Imprenditore certo, bravo imprenditore, onesto sicuramente, buono persino. Ma che è di là. Rispetto a me, idealmente, quasi spazialmente. Garantire diritti vuol dire obbligarlo a dare lavoro. Mi dispiace e mi ammutolisco, deve sembrargli retorica di sinistra la mia. Il mondo gira in un altro modo, lui lo sa. Io no. Deve averlo pensato. Eppure questo schema “naturale” è uno scivolamento regressivo e non soltanto, come scriviamo su questo numero di Left. Ha a che fare con un’impostazione che ha “cancellato” l’umanità della vita e che parla sempre più di spesso di quella obbligatorietà indigesta: obbligo delle quote di migranti, obbligo delle tasse... un obbligo che cancella l’umano essere di molte cose giuste. E se diventeranno obbligatori persino i diritti, perché confusi con “l’obbligatorietà di dare lavoro”, lo scivolamento sarà sempre più pericoloso. Perché mai dovremmo obbligare qualcuno a riconoscere i diritti di altri? Riconoscere il diritto a un lavoro che abbia quel minimo di tutele che garantiscano una vita degna di essere vissuta a giovani e meno giovani, vuol dire obbligare? Siamo sicuri che lo “schema” che ci viene imposto sia poi così naturale? O è quanto di più sbagliato sia stato fatto in questi ultimi anni? Uno scontrino dal tabaccaio, un buono invece di uno stipendio, niente tutele, niente malattia, niente. Produci consuma crepa, abbiamo titolato qualche tempo fa. Prima di sapere di questi referendum in cui chiederanno a noi, proprio a noi, se i voucher ci piacciono, se li riteniamo uno strumento giusto e anche se non sia importante che un imprenditore stia attento a chi dà in appalto un lavoro. Ci chiederanno se questo “non” obbligo dei datori di lavoro a garantire lavoro e diritti sia giusto. Quelli a cui lo abbiamo chiesto ci hanno quasi supplicato di non fare l’errore di sottovalutare l’importanza di questi due quesiti, di quanto possano smontare comunque e ancora di più lo schema “naturale” del Jobs act di Renzi, quello che mette precarietà e ricattabilità al centro dello schema Futuro. Poi ci hanno chiesto di fare la battaglia insieme. E noi siamo qui. [su_divider text="In edicola" style="dotted" divider_color="#d3cfcf"]

Questo editoriale lo trovate su Left in edicola dal 21 gennaio

 

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«Comunque in Italia non c’è ancora l’obbligo di dare lavoro». Mi ha detto così, stavamo discutendo di referendum e articolo 18. Di diritti e lavoro. E lui, bravo come me, onesto come me, in ospedale come me a trovare un amico grande, mi ha risposto così. E io l’ho tranquillizzato: «Sì certo, non c’è l’obbligo di dare lavoro». Poi non ho smesso di pensare a quella frase e a quello che gli deve sembrare il mio parlare.
Obbligarlo a dare lavoro. Imprenditore certo, bravo imprenditore, onesto sicuramente, buono persino. Ma che è di là. Rispetto a me, idealmente, quasi spazialmente. Garantire diritti vuol dire obbligarlo a dare lavoro. Mi dispiace e mi ammutolisco, deve sembrargli retorica di sinistra la mia. Il mondo gira in un altro modo, lui lo sa. Io no. Deve averlo pensato. Eppure questo schema “naturale” è uno scivolamento regressivo e non soltanto, come scriviamo su questo numero di Left. Ha a che fare con un’impostazione che ha “cancellato” l’umanità della vita e che parla sempre più di spesso di quella obbligatorietà indigesta: obbligo delle quote di migranti, obbligo delle tasse… un obbligo che cancella l’umano essere di molte cose giuste. E se diventeranno obbligatori persino i diritti, perché confusi con “l’obbligatorietà di dare lavoro”, lo scivolamento sarà sempre più pericoloso. Perché mai dovremmo obbligare qualcuno a riconoscere i diritti di altri? Riconoscere il diritto a un lavoro che abbia quel minimo di tutele che garantiscano una vita degna di essere vissuta a giovani e meno giovani, vuol dire obbligare? Siamo sicuri che lo “schema” che ci viene imposto sia poi così naturale? O è quanto di più sbagliato sia stato fatto in questi ultimi anni? Uno scontrino dal tabaccaio, un buono invece di uno stipendio, niente tutele, niente malattia, niente. Produci consuma crepa, abbiamo titolato qualche tempo fa. Prima di sapere di questi referendum in cui chiederanno a noi, proprio a noi, se i voucher ci piacciono, se li riteniamo uno strumento giusto e anche se non sia importante che un imprenditore stia attento a chi dà in appalto un lavoro. Ci chiederanno se questo “non” obbligo dei datori di lavoro a garantire lavoro e diritti sia giusto. Quelli a cui lo abbiamo chiesto ci hanno quasi supplicato di non fare l’errore di sottovalutare l’importanza di questi due quesiti, di quanto possano smontare comunque e ancora di più lo schema “naturale” del Jobs act di Renzi, quello che mette precarietà e ricattabilità al centro dello schema Futuro. Poi ci hanno chiesto di fare la battaglia insieme. E noi siamo qui.

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