Sinistra italiana dal 17 al 19 febbraio terrà a Rimini il suo congresso fondativo. Con le immancabile polemiche sul rapporto con il Pd. Arturo Scotto è uno dei dialoganti e ha annunciato la candidatura alla segreteria. Giura, però, che neanche lui vuole riallacciare con Renzi

«Sinistra Italiana ha un senso se non coltiva la presunzione dell’autosufficienza, ma l’ambizione di una comune ricostruzione». La dice così, nero su bianco, Arturo Scotto, andando subito al nocciolo della questione, il rapporto col Pd, che tanto sta facendo discutere a sinistra. Lo scrive nel documento con cui si candida (o «mette a disposizione», come è più elegante dire) alla segreteria di Sinistra italiana, che dal 17 al 19 febbraio terrà a Rimini il suo congresso fondativo. Scotto, con ogni probabilità, si sfiderà con Nicola Fratoianni, ultimo coordinatore di Sel, il partito di Nichi Vendola che si è sciolto proprio per dar vita al nuovo, insieme a ex dem come Cofferati, Fassina e D’Attorre. In un clima, però, piuttosto acceso – avrete notato, anche distrattamente – anche per colpa di “disturbatori” come Giuliano Pisapia, che hanno fatto riesplodere la solita questione del rapporto con i dem.

Scotto, lei dice che nell’ultimo anno c’è stata una «rappresentazione grottesca» del vostro dibattito interno. Poi però nel documento con cui si candida scrive «Sinistra Italiana ha un senso se non coltiva la presunzione dell’autosufficienza, ma l’ambizione di una comune ricostruzione», e va subito al nodo delle alleanze. Ma è veramente quello il punto?

«Lo è insieme ad altri, ovviamente. Ma non perché si debba dire a priori se allearsi o no con il Pd. Lo è perché se è evidente che con Matteo Renzi non sarebbe possibile ricostruire alcunché, coltivare vocazioni pregiudizialmente quartopoliste è invece un errore politico. Un peccato».

Non mi pare siano in molti a dire “col Pd mai e poi mai”. Ho come la sensazione che sia tutto più una questione di posizionamento. Su Matteo Renzi siete d’accordo. Giusto?

«Il giudizio su Renzi, sul suo Pd, sul suo governo e sull’intera stagione politica ci unisce, senza dubbio. Infatti tutti insieme abbiamo fatto in questi anni un’opposizione netta, chiara e sempre sul merito. Forse, però, ci divide il giudizio sul dopo – se vogliamo parlare di alleanze e non dell’organizzazione del partito, della selezione delle classi dirigenti e degli altri temi di cui parleremo al congresso. Per me la sinistra che ci prova, quella che vuole provare a incidere, è quella che riapre le discussioni. Riapre le discussioni che è utile aprire, ovviamente, quelle che possono servire a rimettere al centro di un campo più largo i nostri temi».

Vendola dice che l’analisi e la proposta di Pisapia, con tutto il cascame sul nuovo Ulivo, sono superficiali, non tengono conto di cosa è diventato il Pd, di cosa è adesso. Non tiene conto dei voucher, del jobs act, della riforma costituzionale. Lei pensa che il Pd potrebbe, credibilmente, tornare indietro?

«Io, per cominciare, penso che, come peraltro dice Nichi, Giuliano non è un nemico. Poi però, ovviamente, neanche io condivido le sue posizioni su Matteo Renzi, perché mi pare impensabile ricostruire un centrosinistra nuovo con quello che è stato il suo killer. Invece, però, non penso affatto che il centrosinistra sia destinato a non riformarsi più. E così il Pd. Perché è vero che Renzi non l’ha portato la cicogna e che è figlio degli errori della sinistra progressista, il frutto di troppi anni di accondiscendenza verso una visione ottimistica della globalizzazione, ma è vero anche che in un momento in cui si mette in crisi proprio quella storia, vanno incoraggiate elaborazioni critiche – e autocritiche – come quelle che sta facendo la minoranza Pd. Non serve a molto indicarle come operazioni di maquillage».

«Fondiamo un partito nuovo e non l’ennesimo partito», ha scritto. Mi tocca far notare che Sinistra italiana forse non è l’ennesimo ma non è neanche l’unico né ultimo partito a sinistra. Anche sciolta Sel e unito ciò che ne resta a un po’ di ex Pd, rimane una certa abbondanza di sigle. Non si poteva fare di più, qualcosa di veramente nuovo?

«Si può sempre far meglio, ma io non ho mai pensato che bisognasse costruire una forza politica che unisse tutta la sinistra. Non è quello di cui abbiamo bisogno perché la risposta sarebbe tutta politicista. La sinistra va unita ma anche rinnovata. Noi vogliamo una sinistra popolare, larga, ma anche di governo – anche se in questo momento, ovviamente, convintamente all’opposizione. Riunire, come è successo in passato, per una strana ansia tutta elettorale, identità diverse ci condanna invece all’irrilevanza».

Quando però le elezioni si avvicineranno forse con alcune sigle un discorso converrà farlo. Non sono tutte vocate all’opposizione, no?

«A me sembrerebbe curioso che una forza che a febbraio fa il suo congresso fondativo, con un percorso partecipato, centinaia di delegati, migliaia di militanti, poi non si presenti alle elezioni. Curioso e sbagliato, perché non abbiamo certo bisogno di Arcobaleni bis. Non è questo che ci viene chiesto: ci si chiede invece di rimettere in moto un mondo – che dobbiamo sì allargare, e io mi metto a disposizione per questo – su alcuni temi. Ci si chiede, anche sostenendo i referendum della Cgil, di proporre con forza il reddito minimo garantito; ci si chiede di sostenere la necessità di una stagione di forti investimenti pubblici, la centralità della rivoluzione femminile, di una rivoluzione ecologica».

Investimenti pubblici, reddito, diritti civili. Insisto nel dire che con alcuni si fa fatica a cogliere distanze politiche. L’unica forse rilevante è quella sull’euro, che peraltro è tutta interna a Sinistra Italiana. Cosa pensa dell’emendamento di Fassina?

«Sono contento di poterne discutere ma non lo condivido. Zygmunt Bauman ha scritto che il mondo nel quale viviamo rischia di esser quello delle “retro utopie”, delle utopie del ritorno al passato, che poi sono spesso le utopie del recinto, dello stato nazione. È questo che mi preoccupa e convince, consapevole peraltro che un ritorno così lo gestirebbero le destre. Il nostro impegno, invece, partendo dalla stessa radicale critica, deve esser quello per una riforma dei trattati, facendo leva sulle crepe che si stanno aprendo nell’Europa della grande coalizione, che – anche con l’elezione del presidente dell’europarlamento – mostra la sua insostenibilità».

Sono nato a Roma, il 23 febbraio 1988. Vorrei vivere in Umbria, ma temo dovrò attendere la pensione. Nell'attesa mi sposto in bicicletta e indosso prevalentemente cravatte cucite da me. Per lavoro scrivo, soprattutto di politica (all'inizio inizio per il Riformista e gli Altri, poi per Pubblico, infine per l'Espresso e per Left) e quando capita di cultura. Ho anche fatto un po' di radio e di televisione. Per Castelvecchi ho scritto un libro, con il collega Matteo Marchetti, su Enrico Letta, lo zio Gianni e le larghe intese (anzi, "Le potenti intese", come avevamo azzardato nel titolo): per questo lavoro non siamo mai stati pagati, nonostante il contratto dicesse il contrario.