Pateh Sabally, 21 anni, esce dalla stazione dei treni di Venezia, scende i gradini e si dirige inesorabilmente verso l’acqua. Quando la notizia di un morto in Canal Grande si sparge in città, i veneziani sono perlopiù increduli. Un uomo del Gambia, domenica pomeriggio, in una delle città più visitate al mondo, ha calpestato una pietra dietro l’altra fino ad inciampare nel vuoto e scomparire di fronte a centinaia di persone. Mentre i suoi vestiti si gonfiano d’acqua, qualcuno da un vaporetto vicino gli lancia un salvagente, ma Pateh non sente più nessuno, non ha nemmeno la forza di alzare le braccia.
A leggere e ascoltare i commenti ai video che hanno filmato la morte in diretta ci si sente andare a picco con lui: “Oh Africa”, “Insemenio va a casa”, “Varemengo ti ta morti eora neghite”, “Ma questo è scemo”.
Mi sembra di sentire il suono delle loro voci, le bocche spalancate, le voragini scomposte di un comportamento impietoso. Sento le braccia tendersi con i telefonini accesi, alcuni agitarsi dalla paura, altri fendere l’aria con una violenza inaudita. Sento lo spasmo di un tempo che ci ha reso incapaci di gestire istinti elementari.
Capita che in una giornata d’inverno un giovane uomo scappato dall’Africa ci muoia di fronte agli occhi e nessuno si muova. Tra noi e lui solo la parabola di una paralisi emotiva che non conosce precedenti. Ha scelto bene Pateh, o forse non ha scelto proprio niente di questa quinta infernale. Così mentre da giorni seguiamo alla televisione commossi un esercito di volontari scalare pareti di neve nella terra che trema, a un passo da noi, proprio davanti ai nostri occhi, in assenza di una qualsiasi calamità naturale, restiamo spettatori inermi dell’unica vera tragedia che avremmo potuto evitare. Assenti a Pateh, assenti a noi stessi. Assenti.