Dopo l'appello del Gruppo di Firenze, fondato da un preside e 3 insegnanti in pensione, sottoscritto da 600 docenti universitari, i media hanno messo alla gogna i docenti italiani. Ma le ragioni sono altre. Ecco una ricostruzione dello smantellamento della scuola pubblica e della figura dell'insegnante

È stata una domenica di passione quella di ieri per gli insegnanti italiani. Sono finiti sul banco d’accusa come non accadeva da molto tempo. Una sferzata di giustizialismo  ha attraversato tutti i media dopo l’appello “Contro il declino dell’italiano a scuola” lanciato dal Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità – questo il nome completo – sottoscritto poi da 600 docenti universitari. La sintesi è questa: “Gli studenti italiani arrivano all’università senza sapere né leggere e scrivere. Non sono capaci di fare discorsi secondo una logica compiuta, sono un branco di analfabeti”. Con l’ovvia conclusione implicita: colpa dei docenti, troppo lassisti, troppo accondiscendenti, troppo permissivi. In particolare nel testo della lettera rivolta alla ministra dell’Istruzione Fedeli, le critiche sono rivolte ai docenti del primo ciclo, in gran parte maestre. Si sollecitano quindi più attività nell’ambito della scrittura – dettato, riassunto, scrittura corsiva ecc. – che però sono già contenute nelle Indicazioni nazionali del 2012 e che forse gli estensori dell’appello non hanno letto.

Ma è davvero così giustificata questa impennata contro gli insegnanti?
Nel mare magnum dell’indignazione collettiva Massimo Cacciari, che pure anche lui aveva firmato l’appello, su Repubblica ha fatto notare che «la colpa non è tanto degli studenti né degli insegnanti ma di chi ha smantellato la scuola disorganizzandola». Ora, che il problema esista, è un fatto, dimostrato anche dalle statistiche Ocse che ci collocano sempre agli ultimi posti (in media, ma poi se vediamo nei dettagli, in certe regioni le cose vanno meglio). Ma forse il problema andrebbe analizzato nei dettagli e con più approfondimenti, senza sparare così, tout cort, sugli insegnanti che ormai è come sparare sulla Croce Rossa.

Va detto che la ribellione in rete è stata istantanea. Tantissimi i post di insegnanti che si sono sentiti trattati a dir poco come “delinquenti”, che distruggono le nuove generazioni. Che dire? È facile prendersela con gli insegnanti quando per decenni si è contribuito a delegittimare l’istruzione pubblica. Ma rimanendo ai fatti, vogliamo ricordare qualche tappa passata delle politiche scolastiche italiane? Così, tanto per rinfrescare la memoria. Otto miliardi (8) di euro di tagli sotto il duo Gelmini-Tremonti. Mai visto prima un simile disincentivo da parte dello Stato per la scuola pubblica. E questo mentre gli altri Paesi europei invece, pur nella crisi del 2008, hanno investito nell’istruzione. Ma prima ancora della mannaia tremontiana c’era stato il feeling del centrodestra per le tre i (Impresa, inglese e Internet), prima ancora la parificazione delle scuole private con quelle pubbliche (ahimè con il ministro ex comunista Luigi Berlinguer).

E poi, negli anni, a seguire, la riduzione delle ore di italiano nelle scuole medie e superiori, la scomparsa di certe materie come la storia dell’arte…
E poi non dimentichiamo cosa è arrivato dopo, con il governo di centrosinistra Renzi. Sissignori, è arrivata la Buona scuola, che non a caso è stata applaudita anche da Forza Italia perché ha completato l’opera gelminiana. Con un premier che alla lavagna spiegava le magnifiche sorti e progressive del preside manager e della scuola come azienda. Ma Renzi è solo l’ultimo protagonista di una storia che comincia da lontano. Un lungo cammino verso la delegittimazione della professione dell’insegnante, della riduzione della sua libertà d’insegnamento.

Esageriamo? Allora proviamo a scorrere una “giornata tipo” di un prof. Tra registri elettronici da riempire – così i genitori da casa possono seguire l’andamento scolastico dei figli e forse saranno meno aggressivi o forse non faranno ricorsi per le eventuali bocciature -, o le valutazioni Invalsi che fanno perdere tempo prezioso perché bisogna allenare gli studenti alle risposte standard per i quiz. E poi un’infinità di procedure burocratiche, tra Bes, Dsa, moduli per l’auto valutazione della scuola ecc. ecc. E poi cosa accade? Ti prendono altre ore di insegnamento, perché c’è l’alternanza scuola-lavoro – anche giusta ma forse da organizzare in un altro modo – e quindi, via, 200 ore nel triennio dei licei e 400 negli istituti tecnici. La scuola deve preparare al lavoro, la scuola non ha studenti ma clienti, dice il profeta della meritocrazia Roger Abravanel, molto in auge nel clima pre Buona scuola. Le competenze vengono ridotte, finalizzate all’unico scopo di imparare una professione. Con una miopia incredibile, perché è proprio in una situazione complessa come questa che stiamo vivendo che occorre un sapere complesso, come quello umanistico per esempio, da affiancare certo, a quello scientifico, per troppo tempo, questo è vero, vituperato in Italia. Come ha detto il filologo Luciano Canfora che ha firmato l’appello, bisognerebbe ritornare a studiare l’analisi logica e a tradurre dalle lingue, quelle antiche e quelle moderne per imparare a scrivere bene e anche a costruire un discorso con un minimo di logica. Qualche prof in rete si è lamentato anche per la novità contenuta in una delle deleghe della legge 107 che sono in esame nelle commissioni parlamentari. “Ma come? Adesso vogliono anche portare all’esame studenti con gravi insufficienze e poi ci accusano di non fare bene il nostro lavoro?”.

Che cosa sia la professione di insegnante lo spiega molto bene Franco Lorenzoni, il maestro di Giove (Terni) autore di un bel libro (I bambini pensano grande, Sellerio) che su Internazionale ha raccontato la sua avversità ai voti decimali alle scuole elementari. A un tipo di valutazione “fredda” che blinda il bambino in una gabbia da cui con difficoltà esce.
Sentite cosa scrive dell’essere insegnante: «Il nostro è un mestiere artigiano in cui dobbiamo avere la pazienza e il coraggio di mettere a punto gli strumenti del nostro operare ogni volta, perché ogni gruppo di bambini o ragazzi è un organismo complesso, composto da difficoltà e potenzialità sempre nuove, per affrontare le quali non ci sono ricette belle e pronte».

Contro l’abolizione dei voti decimali alla primaria si era schierato prontamente il Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità. Ma cos’è il Gruppo di Firenze? Intanto è nato nel 2005, fondato da Andrea Ragazzini, Sergio Casprini, Giorgio Ragazzini e Valerio Vagnoli, un preside e tre insegnanti in pensione. Le loro attività si possono scorrere nel sito. Convegni, incontri, appelli, lettere aperte ai docenti e ai politici. Nel 2008 una lettera del Gruppo di Firenze sulla necessità di un partito trasversale sul merito e la responsabilità prima delle elezioni politiche viene letta dalla ministra Gelmini nella prima audizione alla Camera dichiarando poi di fare suo il contenuto. Nel corso degli anni i membri del Gruppo di Firenze hanno alternato una dura critica alle occupazioni degli studenti alla protesta contro gli schiamazzi notturni in città. Le iniziative del gruppo di Firenze hanno sempre trovato molta attenzione da parte dei presidi. Eppure, sono proprio i presidi i primi, sostengono molti insegnanti, a impedire una valutazione troppo severa degli studenti da parte dei prof. “Ma come mai tutte queste insufficienze?” si sentono dire in tanti ai consigli di classe. È ovvio, tante bocciature non fanno fare una bella figura alla scuola e ormai siamo in un clima di scuola-azienda, di mercato…

Insomma,è molto semplice scaricare la colpa sui prof, quando le responsabilità sono di un intero sistema. Lo sosteneva anche Tullio De Mauro: se la scuola italiana non va bene dipende anche dall’assenza di una cultura di base. Per questo il grande linguista da poco scomparso, sosteneva a spada tratta la necessità di un’educazione permanente per gli adulti. Il ragionamento era semplice: se in una famiglia non si legge un libro, non si sente mai parlare di cinema o di teatro, è difficile che uno studente possa colmare il gap culturale solo con la scuola. Ma dell’educazione degli adulti o della promozione della cultura o della semplice lettura i vari governi succedutisi negli anni se ne sono bellamente disinteressati. E forse a poco serve che la ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli oggi su Repubblica lanci la proposta di «attivare uno studio vivo del suo pensiero didattico». Tullio De Mauro, per la cronaca, era uno strenuo oppositore della Buona scuola.