Flynn aveva telefonato all'ambasciatore russo quando Obama era ancora in carica, forse promettendo di eliminare le sanzioni contro Mosca. Era potenzialmente ricattabile. Le dimissioni sono un segnale di un conflitto permanente tra clan all'interno della Casa Bianca

Era stato tra i primissimi a essere scelti, è stato il primo a lasciare. Dopo giorni di voci e rivelazioni sui contatti avuti con l’ambasciatore russo a Washington durante la fase di transizione tra la presidenza Obama e quella Trump, Michael Flynn, generale in pensione e Consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Usa, è stato costretto a dimettersi. La notizia è giunta alle 11 della sera negli Usa, fuori tempo massimo per il prime time televisivo anche sulla costa Ovest, ed è un pessimo segnale per la tenuta di una compagine di governo che fa acqua da tutte le parti. Poche ore prima Kellyanne Conway, che fa un po’ da interfaccia non ufficiale tra Trump e i media, aveva dichiarato:  «il presidente ha piena fiducia nel generale Flynn».

Il problema è che, con il passare dei giorni, le notizia sui rapporti intercorsi tra questi e l’ambasciatore Kisyliak aumentavano. Prima erano chiamate pro-forma per stabilire un contatto durante la transizione, poi abbiamo saputo che ci sarebe stata la promessa di cancellare le sanzioni approvate da Obama per la vicenda dell’hackeraggio russo fatto nel tentativo di influenzare le elezioni, infine, sembra che i contatti ci fossero già stati prima del voto di novembre. Ovvero mentre Mosca lavorava per influenzare il risultato elettorale. Nella sua lettera di dimissioni, Flynn non parla di questo ma dice di non aver informato il vicepresidente Pence in maniera compiuta sulle telefonate. Pence ha quindi mentito – o informato male il pubblico perché non a conoscenza dei fatti – quando ha difeso pubblicamente Flynn. Mettere il vicepresidente in una situazione difficile è qualcosa che non si fa. Tanto più se è in corso un’indagine che ti riguarda perché sei sospettato di aver preso soldi per aver tenuto conferenze pagate in Russia mentre eri generale. Vietato dalla legge. Infine c’era il timore, avanzato dal Dipartimento di Giustizia, che per via di quelle telefonate, Flynn fosse ricattabile da parte dei russi. Non il massimo per la figura più vicina al presidente quando si parla di sicurezza nazionale – per la cronaca: due figure di primo piano della Duma russa hanno postato sui social frasi che condannano le dimissioni forzate di Flynn.

Anche la reazione della Casa Bianca alle dimissioni ha un suo interesse. Un mese fa, appunto, il Dipartimento di Giustizia aveva messo sull’avviso l’amministrazione Trump e nessuno aveva reagito. «È un mese che ci occupiamo di questo casino» ha detto in forma anonima un funzionario. Ovvero Trump si è tenuto – e quindi il suo staff ha mentito – Flynn sapendo che andava licenziato o dovendo trovare una scappatoia. In Tv Comway ha detto: «Avevamo fiducia, poi c’è stata la conferma che il vicepresidente è stato fuorviato». Non una bugia, ma una non verità, una risposta concordata con Trump («ci ho parlato personalmente») che non tocca il nodo centrale, il mese di silenzio.

Il presidente se la prende con i leaks con un tweet: che succederà se quando mi occupo di Corea del Nord ci saranno le stesse fughe di notizie. Il tema però non è neppure quello – quanto alla Corea, Trump non sembra troppo preoccupato dalla sicurezza, come potete leggere sotto.

L’imbarazzo per l’amministrazione è grande. Flynn è stato una delle facce visibili della campagna elettorale, un sostenitore di Trump della prima ora, uno che si era dimesso dall’esercito contro le scelte di politica estera di Obama e che aveva gridato «rinchiudetela» con il pubblico durante il suo intervento alla Convention repubblicana e nei comizi, riferendosi a Hillary Clinton. Il tema era «Clinton crede di essere al di sopra della legge». Appunto.

«Sbattetela dentro», Flynn alla convention repubblicana

 

L’imbarazzo è tanto più forte perché sappiamo tutti che all’interno dell’amministrazione è in corso uno scontro furioso di tutti contro tutti. Il team della sicurezza nazionale, i funzionari che se ne occupano, sentono di essere stati spodestati dal gruppo ristretto di collaboratori del presidente che tende a fare le scelte cruciali: Steve Bannon, il genero Jared Kushner, il giovane Stephen Miller, Kellyanne Comway – nella foto in alto, Flynn saluta tra Kushner e Comway, siamo alla conferenza stampa con il premier canadese Trudeau, segno che la decisione di mandarlo via è stata presa successivamente. L’apparato si ribella, passando informazioni alla stampa. Flynn è vittima anche di questo. Tutti i segnali indicavano che il suo ruolo era stato ridimensionato a prescindere dalle telefonate con i russi: c’è stato un braccio di ferro e lui lo ha perso.

Flynn era già finito nel mirino più volte per aver parlato dell’islam come di una religione malata di cancro – quello del radicalismo – per aver discusso con lo staff di Bush e essere stato licenziato da Obama. Sul suo pensionamento le versioni erano molto diverse: il generale sostiene di essere stato cacciato perché si rifiutava di vendere l’idea che al Qaeda fosse in difficoltà, l’amministrazione Obama dice invece che Flynn aveva un pessimo modo di lavorare, un pessimo carattere e gestiva male il personale.

Di ieri anche le voci che vorrebbero il presidente scontento di Reince Priebus, capo dello staff e garante per il partito repubblicano. Un amico di Trump, che ci ha passato la serata tre giorni fa, rilascia un’intervista spiegando che Priebus non va bene e che si stanno cercando sostituti. Un messaggio? Chissà. Certo è che in questi giorni Trump sembra scegliere la sua cerchia ristretta, la stessa che gli ha consigliato alcuni passi falsi (il testo dell’ordine esecutivo su immigrati e richiedenti asilo musulmani) ma che è fedele e ha poco rispetto per le regole. L’apparato viene messo da parte e lo stile di governo è quello di uno show costante, con colpi di scena, psicodrammi e scarsa attitudine a rispettare le procedure. Anche quando si tratta di sicurezza nazionale.

Due giorni fa Trump e il premier giapponese Shinzo Abe si trovavano a Mar-a-Lago, il club esclusivo di proprietà di Trump la cui tariffa di iscrizione è raddoppiata dopo l’elezione (da 100 a 200mila dollari), quando arriva la notizia del test missilistico coreano. Trump non si alza da tavola e comincia a gestire la situazione dal salone del ristorante, davanti agli ospiti. Che postano foto e notizie su Facebook. Uno di loro, Richard De Agazio, fotografa la scena e poi si fa fotografare (qui sotto) assieme al soldato che segue sempre il presidente portando the football, la valigetta con i codici nucleari. Anche lui in sala. E dire che una delle polemiche trumpiane contro Clinton che meglio avevano funzionato era quella sull’uso di un server privato di posta invece di quello protetto.