Nel fuorionda il gelo di Delrio: «Da Matteo neanche una telefonata (alla minoranza), come si fa?»

 

 

In edicola c’è l’intervista al Corriere con cui Matteo Renzi si mostra dialogante e continua a dire che la minoranza cerca solo un pretesto e che, nei fatti, ha paura di contarsi. Graziano Delrio, come altri esponenti dem, ha commentato l’intervista concentrandosi sulla mano tesa (più che sugli schiaffi che la stessa mano continua a dare). Dice Delrio: «L’appello di Renzi è molto importante: ha tolto ogni alibi a coloro che pensano che la scissione si possa fare su una settimana in più o in meno per il congresso. Se qualcuno ha deciso nessuno lo farà desistere, ma tutti sono indispensabili nel partito e adesso non ci sono più alibi». Online, però, arriva su tutti i giornali un fuorionda che racconta un’altra storia. L’audio è di prima dell’intervista, ovviamente, del 16 febbraio. Ma è decisamente favorevole alla versione di Bersani.

Graziano Delrio, pedina fondamentale del governo e del renzismo, ma da sempre renziano atipico, parla infatti con Michele Meta, presidente della commissione Trasporti della Camera, a margine di un convegno nella sede nazionale del Pd. «Barano o fanno sul serio?», chiede Meta a Delrio, riferendosi alla minoranza che minaccia scissione. «No fanno sul serio. Una parte ha già deciso» gli risponde il ministro, che però gira la conversazione sui renziani spiegando che una parte è persino contenta, perché pensa «che diminuiscono i posti da distribuire», e che quindi è meglio così. Ma non «capiscono un cazzo», aggiunge Delrio, «perché sarà una cosa come la rottura della diga in California, si forma una crepa e l’acqua dopo non la governi più».

Ma è il passaggio su Matteo Renzi, che è ancora più interessante. «Si adopera per contrastare sta roba, Matteo?», dice Meta. Delrio risponde: «Si è litigato di brutto perché non è che puoi trattare questa cosa qui come un passaggio normale. Cioè, tu devi far capire che piangi se si divide il Pd, non che te ne frega, chi se ne frega. Non ha fatto neanche una telefonata, su… come cazzo fai in una situazione del genere a non fare una telefonata?».

Già, come si fa? È questo, evidentemente, ciò che contesta la minoranza, il fatto che a Matteo Renzi non importi nulla dell’unità del partito, che non la ricerchi nei fatti ma solo per posa. «In direzione ho visto solo dita negli occhi», ha detto Bersani l’altro giorno, allundendo al fatto che le relazioni del segretario partano sempre con toni concilianti ma finiscano in realtà sempre con un guanto di sfida, così che tutto sembra solo un trucco retorico, per far passare gli altri come i soliti «rosiconi» che sanno di perdere e quindi portano via il pallone.

Che poi può esser anche vero. Renzi il congresso alla fine l’ha concesso, e difficile sarebbe giustificare una rottura sulla data, se così fosse, su un congresso da fare prima o dopo le elezioni amministrative, prima o dopo aver stabilito che il governo Gentiloni durerà fino alla fine della legislatura. Però esiste un tema di civile convivenza, che è anche politico. Perché si può anche decidere che i partiti debbano esser meno di parte di parte possibile e più larghi possibile (tant’è che, in caso di scissione, l’idea della minoranza è di rifare il Pd, praticamente, continuando nell’idea della convivenza con un’anima più moderata – cioè più moderata di quanto non siano già loro). Ma serve un alfabeto politico comune, serve una capacità di conciliazione che Renzi – come riconosce Delrio, non volendo – non ha. Il ragazzo – e l’ha dimostrato a palazzo Chigi – è un tipo divisivo. Che non solo quindi ha spostato a destra il partito ben oltre non l’avesse già portato la precedente dirigenza (che c’ha messo del suo, ma mai avrebbe abolito l’articolo 18, per dire, né tolto l’Imu a tutti), ma che con la sua ossessione contro «i caminetti» e, invece, per le direzioni-show in streaming ha realizzato un partito che è più chiuso, più di potere, meno ospitale.

Sono nato a Roma, il 23 febbraio 1988. Vorrei vivere in Umbria, ma temo dovrò attendere la pensione. Nell'attesa mi sposto in bicicletta e indosso prevalentemente cravatte cucite da me. Per lavoro scrivo, soprattutto di politica (all'inizio inizio per il Riformista e gli Altri, poi per Pubblico, infine per l'Espresso e per Left) e quando capita di cultura. Ho anche fatto un po' di radio e di televisione. Per Castelvecchi ho scritto un libro, con il collega Matteo Marchetti, su Enrico Letta, lo zio Gianni e le larghe intese (anzi, "Le potenti intese", come avevamo azzardato nel titolo): per questo lavoro non siamo mai stati pagati, nonostante il contratto dicesse il contrario.