Ci sono alcune cose chiare dell’assemblea del Pd che ha visto Matteo Renzi formalizzare le dimissioni da segretario e aprirsi quindi la fase congressuale. Altre molto meno. Tra le cose chiare c’è che, ancora una volta, Matteo Renzi e i suoi non hanno voluto dare segnali distensivi. Tra le cose non chiare c'è Michele Emiliano

Ci sono alcune cose chiare, nella giornata di ieri, dell’assemblea del Pd che ha visto Matteo Renzi formalizzare le dimissioni da segretario e aprirsi quindi la fase congressuale, e altre poco chiare.

Tra le cose chiare c’è che, ancora una volta, come in direzione, Matteo Renzi e i suoi non hanno voluto dare segnali distensivi. Forti di aver comunque «concesso» il congresso, l’atteggiamento è stato invece quello di chi chiede: «Cosa altro volete?». Per loro, evidentemente, non erano affatto scontate né necessarie le dimissioni di Renzi, dopo la batosta referendaria, e aver dato le dimissioni e avviato il congresso è già tanto. Non chiedetegli quindi di svelenire pure il clima: non fa per loro. Non si è anzi ritenuto opportuno neanche smentire le voci di possibili ripercussioni sulle giunte di Rossi e Emiliano, che governano rispettivamente la Toscana e la Puglia. Tant’è che Rossi oggi dice: «Se dovesse esserci una verifica mi presenterò in consiglio con un programma di fine legislatura e, se ci sarà una maggioranza, continuerò. Altrimenti qualcuno si assumerà la responsabilità di spaccare tutto».

Battutine, sfottò, gli immancabili «sorrisi» hanno accompagnato ogni singolo intervento di esponenti della minoranza. In particolare Michele Emiliano, che in assemblea ha fatto un intervento dai toni ben più morbidi di quello che avreste potuto sentire all’iniziativa di Enrico Rossi, giusto il giorno prima, ha avuto un trattamento speciale. Ma di Emiliano parleremo dopo, perché è una delle cose poco chiare. Sul clima riportiamo invece la posizione di Andrea Orlando che è uno di quelli che, anche a detta della minoranza, ha cercato (e sta cercando) di evitare la scissione, che avrebbe preferito che Renzi aprisse a «un momento più programmatico» che precedesse il congresso vero e proprio, e che probabilmente finirà con lo sfidare Renzi.

Con Giovanni Minoli, a Faccia a Faccia su La7, Orlando ha evocato un algoritmo, per spiegare il nodo – francamente incredibile – delle relazioni umane: «Mi hanno spiegato che su facebook l’algoritmo spinge i membri in delle bolle, dove si fanno parlare i simili con i simili. Bolle che poi spesso si rivolgono agli altri e li aggrediscono. Ecco: mi par che le correnti del Pd abbiano funzionato un po’ in questo modo». Ci pare calzi.



L’altra cosa chiara è che c’è un pezzo della minoranza dem che la scissione l’ha già fatta
. Anzi, c’è chi già sta organizzando i gruppi parlamentari (al solito la macchina organizzativa è in mano a Nico Stumpo), riflettendo sul rapporto con la “cosa progressista” di Pisapia (al momento più dialogante con Renzi) e pensa al nome del partito: si va da “Nuova sinistra” a “Diritti e lavoro”. I gruppi dovrebbero nascere mettendo insieme deputati e senatori bersaniani che lasceranno i gruppi del Pd e chi invece, con Arturo Scotto, lascerà il gruppo di Sinistra italiana, rischiando così, però, di trovarsi a dover votare la fiducia al governo Gentiloni (cosa già annunciata da Speranza e Rossi). Alla Camera il gruppo potrebbe così esser composto da una trentina di deputati (i più ottimisti contano fino a 38), mentre al Senato, dove da Sinistra italiana non dovrebbe arrivare nessuno, saranno in 12, massimo 15. Un po’ come Renzi che non ha voluto dare sponde, alcuni di questi hanno deciso da giorni che la scissione era cosa inevitabile, considerando chiusa la stagione maggioritaria. È però lo stesso comunicato firmato da Speranza, Rossi e Emiliano alla fine dell’assemblea che ci dice che la scissione, seppur certa, ha confini ancora incerti, tant’è che si dice solo che «è Renzi ad aver scelto la strada della scissione assumendosi così una responsabilità gravissima», non che la scissione è cosa fatta. E Michele Emiliano, ancora in dubbio, frena anche oggi. D’altronde, potremmo notare, se Enrico Rossi non fa altro che chiedere un ritorno alle radici socialiste, Emiliano è quello che di radici socialiste ne ha meno. Nonostante tutti e tre giurino di non voler fare una ridotta rossa ma un partito dallo spirito ulivista (come conferma la presenza di moderati come Francesco Boccia), quindi, Emiliano tiene ancora il piede in due staffe.



La terza cosa sicura è che nessuno vuole prendersi la responsabilità della rottura
. Gli uni dicono che è colpa di Renzi (preoccupati di passare per “sfascisti”), Renzi dice che è colpa degli altri (non potendo dire che, in fondo, è contento o che sa, almeno, che contenti sono molti dei suoi, liberandosi posti nelle liste). Nessuno si assume la responsabilità della scissione. E non lo fa soprattutto chi si prepara a lasciare la casa democratica, contribuendo peraltro ad alimentare l’impressione (in realtà non del tutto corretta) che tutto sia legato a una questione di burocrazia interna, tra date del congresso e l’esigenza, non riconosciuta da Renzi, di un’assemblea programmatica.

Sempre al Teatro Vittoria, all’iniziativa di Enrico Rossi, avreste invece potuto ascoltare un intervento di Roberto Speranza molto programmatico. Sul lavoro, sulla scuola, sull’ambiente le distanze con le politiche di Renzi sembrano profondissime (scriviamo “sembrano” perché c’è sempre il problema che quelle politiche, a parte la legge elettorale, Speranza&co le hanno votate tutte). È un peccato non puntare tutto su quello, anche se si capisce che la conferenza programmatica dovrebbe servire proprio per arrivare a questo risultato: rompere sui contenuti. Con un paradosso però: perché per ora, infatti, la minoranza scissionista ha chiesto (non ottenendolo) anche che il Pd blindasse il governo Gentiloni fino a fine legislatura. Ancora una volta immaginiamo che l’idea sia di spostare il più possibile a sinistra il governo Gentiloni (tipo sui voucher). Ma il risultato immediato è di passare per quelli che vogliono tenere in vita un governo di larghe intese, mentre Renzi tiene per sé il ruolo di quello che tiene il governo sulle spine.

Sono nato a Roma, il 23 febbraio 1988. Vorrei vivere in Umbria, ma temo dovrò attendere la pensione. Nell'attesa mi sposto in bicicletta e indosso prevalentemente cravatte cucite da me. Per lavoro scrivo, soprattutto di politica (all'inizio inizio per il Riformista e gli Altri, poi per Pubblico, infine per l'Espresso e per Left) e quando capita di cultura. Ho anche fatto un po' di radio e di televisione. Per Castelvecchi ho scritto un libro, con il collega Matteo Marchetti, su Enrico Letta, lo zio Gianni e le larghe intese (anzi, "Le potenti intese", come avevamo azzardato nel titolo): per questo lavoro non siamo mai stati pagati, nonostante il contratto dicesse il contrario.