Il Transnational Institute di Amsterdam pubblica un nuovo rapporto sul "business del bailout" in Europa. Svelato al pubblico come funziona il mercato degli audit e delle consulenze durante il salvataggio delle banche

“The Bail Out Business” è il nome del nuovo rapporto pubblicato dal Transnational Institute (Tni) di Amsterdam, un’organizzazione non governativa che promuove politiche progressiste e democratiche per risolvere problemi di dimensione globale, attraverso attività di ricerca e analisi che mettano in contatto accademia, decisori politici e movimenti sociali.

La domanda al centro del rapporto è semplice, ma non banale: chi guadagna dai piani di salvataggio delle banche nell’Unione europea? Come ricordano gli autori, Sol Trumbo Vila e Matthijs Peters, tra il 2008 e il 2015, gli Stati membri dell’Unione europea, «hanno speso quasi 750 miliardi di euro in differenti programmi di salvataggio». Inoltre, 213 miliardi da attribuire al “contribuente europeo”, sarebbero «state persi definitivamente» nel corso di queste operazioni. L’ultimo caso noto, citato anche nel rapporto, è legato al salvataggio del Monte dei Paschi di Siena.

Innanzitutto, Vila e Peters sottolineano come il salvataggio delle banche nell’Ue sia stato spesso finanziato dall’emissione di nuovo debito pubblico. Quest’ultimo in molti casi ha raggiunto un peso insostenibile per Paesi come Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, forzando la richiesta di aiuto da parte degli stessi Stati alla così detta Troika.

Ma “The Bail Out of Business” pone l’accento su un altro costo, “nascosto”, delle operazioni di stabilizzazione finanziaria: quello legato ai servizi di consulenza commissionati a società private.

I risultati principali del rapporto indicano infatti che «istituzioni nazionali ed europee hanno speso centinaia di milioni di euro per ricevere “consigli” su “come” salvare le banche fallite». Chi sono stati (e sono tutt’ora) i fortunati consulenti coinvolti?

Vila e Peters spiegano che Ernest Young, Deloitte, KPMG e PWC, insieme a un gruppo di  società di consulenza minori, «costituiscono di fatto un “oligopolio”» . Queste multinazionali da un lato validano i conti degli istituti di credito e, dall’altro, designano i piani di salvataggio per il settore pubblico.

Ma è soprattutto nel merito delle attività svolte da queste “4 grandi sorelle” della consulenza mondiale, che l’accusa del Tni diventa pesante: «Le società a cui era stato chiesto [prima della crisi] di garantire a investitori e regolatori che le banche europee fossero stabili, continuano a esercitare un dominio di mercato; [ciò avviene] nonostante ci siano stati gravi fallimenti nella valutazione [da parte di queste società] dei rischi legati alle attività di credito del sistema bancario europeo».

Lungi dal rappresentare una mera analisi del passato, il rapporto sottolinea che ci si trova di fronte a un vero e proprio meccanismo consolidato che con tutta probabilità si ripeterebbe anche nel caso dovessero verificarsi nuovi salvataggi bancari. Per questo motivo, in un certo senso, è difficile separare ciò che è stato fatto male in passato, dai rischi futuri.

Ma qual è il meccanismo al centro del business dei bailout? Illustrandro quattro casi specifici, legati ai salvataggi di Bankia (Spagna), Eurobank (Grecia), ABN AMRO (Paesi Bassi), Royal Bank of Scotland (Scozia), Irish Bank Resolution Corporation (Irlanda), Vila e Peters spiegano che, le “4 grandi sorelle di cui sopra” si sono spartite sistematicamente sia gli audit dell’istituto prima del fallimento, nonché l’audit della stessa banca, una volta “risanata”, creando le condizioni per un evidente «conflitto di interessi».

Allo stesso tempo, un gruppo consolidato di società più piccole, come Lazard, Rothschild e Merril Lynch, si spartivano i servizi di consulenza legati al disegno dei piani di salvataggio pubblici, e che spesso si sono rivelati «di scarsa qualità».

Un caso esemplare? Quello del salvataggio della olandese ABN AMRO. Nell’ottobre del 2008, lo Stato spese circa 22 miliardi di euro nel quadro di un piano di bailout disegnato da Lazard. Nel novembre del 2015, 7 anni dopo il salvataggio, l’offerta pubblica iniziale (Ipo) valutava l’istituto a 16,7 miliardi di euro; lo Stato olandese ha successivamente proceduto alla ri-privatizzazione (ancora in corso), generando una «perdita pari a 5 miliardi per il contribuente olandese». Nel rapporto si specifica quindi che, nel 2008, al momento della consulenza svolta per il pubblico, Lazard avrebbe «omesso di indicare la presenza di debiti ingenti in pancia alla banca». Questi sarebbero dovuti essere sottratti al valore di acquisto. Al contrario, il pubblico, «a causa dell’omissione, ha dovuto iniettare altri 6 miliardi di euro per tenere in vita l’istituto». In tutto ciò, Lazard avrebbe «ricevuto 5 milioni di euro per tre giorni di lavoro».

Dopo la crisi, le istituzioni europee hanno preso misure per arginare il fenomeno, ma le attività di lobbying da parte delle società di audit e di consulenza, hanno di fatto indebolito la forza delle norme previste inizialmente. Nel 2012, fu la stessa Commissione europea a lamentarsi dell’eccessivo lobbying da parte delle multinazionali coinvolte. I regolamenti e le direttive finali prevedono dei meccanismi di rotazione obbligata per evitare che attività di auditing e consulenza siano svolte dalla stessa azienda. Ma, come sottolineato da Vilo e Peters, «lo sforzo delle istituzioni rischia di essere vano, a causa della natura oligopolistica del mercato».

Il rapporto conclude che «si deve affrontare la dipendenza da un mercato finanziario, dominato da società private […] nel settore dell’audit devono essere sviluppate alternative pubbliche che operino in parallelo agli oligopoli. La creazione di banche pubbliche può costituire un primo passo verso un rafforzamento della capacità delle istituzioni di gestire i problemi legati al settore bancario e di rispondere alle crisi finanziarie».