«Noi non vediamo le cose nel modo in cui sono. Le vediamo nel modo in cui siamo». La frase è tratta da uno dei testi sacri dell’ebraismo, il Talmud, ma potrebbe essere anche il sunto di molte ricerche sociali che cercano di tracciare i differenti modi in cui vediamo il mondo.
Esistono differenze fra la cultura Occidentale e quella Orientale (ce lo hanno spiegato libri come The Geography of Thought di Richard E. Nisbett o Il trattato dell’efficacia del filosofo Francois Jullien dove vengono messi a confronto due concetti di strategia, uno basato sul pensiero greco, l’altro su quello cinese), fra quella cristiana e quella musulmana, fra uomini e donne e addirittura all’interno dei diversi ceti di uno stesso Paese. L’ecosistema sociale in cui siamo inseriti determina infatti fortemente il modo in cui siamo abituati a vedere e pensare il mondo e, addirittura, le cose che ci colpiscono o meno quando vediamo una stessa scena. Secondo una recente ricerca riportata dal New York Magazine tutto questo accade anche tra persone che, pur condividendo la stessa cittadinanza, appartengono a classi sociali diverse. La tesi che porta avanti lo studio è questa: i ricchi e la classe lavoratrice vivono in sistemi culturali differenti, per questo è molto probabile che vedano il mondo in modi altrettanto differenti.
«le persone con uno status socioeconomico più elevato avevano una risposta neuronale inferiore di fronte alle manifestazioni di dolore altrui».
Non è certo la scoperta del secolo e in molti potremmo dire di averlo già intuito, ma è interessante che qualcuno si sia preso la briga di dimostrare in modo scientifico e analizzando una serie di tematiche una credenza diffusa e spesso ridotta al solo stereotipo. A farlo è stato Micheal Varnum, neuoroscienziato dell’Università dell’Arizona, che nel 2015 ha pubblicato un paper su come la classe sociale di appartenenza porti a sviluppare livelli di empatia diversi fra le persone. Varnum, con la scusa di far cercare loro qualcos’altro, ha mostrato ai 58 partecipanti alla sua ricerca una serie di volti, sereni o sofferenti, registrando l’immagine cerebrale che queste foto scatenavano. I risultati hanno mostrato che, nonostante dichiarassero di essere persone molto empatiche, «le persone con uno status socioeconomico più elevato avevano una risposta neuronale inferiore di fronte alle manifestazioni di dolore altrui». «Quello che abbiamo scoperto», ha spiegato Varnum al New York Magazine, «suggerisce che l’empatia, o alcune delle sue componenti emotive, sono ridotte in chi viene da un ceto sociale più abbiente. In ulteriore studio del 2016 il ricercatore ha constatato che le persone che appartengono a classi sociali più basse tendono a sviluppare una maggior sintonia interpersonale. Il lavoro, specifica Varnum, non è dimostrato da misure neuronali, ma studiando l’encefalogramma sono state ritrovate delle coincidenze che portano a credere che effettivamente ci possano essere delle forti correlazioni fra la risposta del sistema neuronale e la classe sociale di appartenenza.
L’empatia è solo uno degli elementi che verrebbero vissuti in maniera diversa da persone di ceti differenti, secondo un altro studio effettuato da Pia Deietze, una dottoranda della New York University, pubblicato sulla rivista Psychological Science lo scorso ottobre, a cambiare sarebbe sostanzialmente il livello di attenzione che si presta alle cose e alle persone che abbiamo attorno.
Lo status di appartenenza infatti modella l’ambiente in cui cresciamo, e definisce l’ ”ecologia” con cui guardiamo al mondo definendo le nostre abitudini di attenzione
Dopo aver coinvolto circa una sessantina di persone con background culturali ed economici differenti e aver effettuato tre diversi esperimenti utilizzando dei Google Glass, per tracciare per quanto tempo e su cosa si soffermasse l’attenzione dei partecipanti, Deietze ha concluso che «la classe sociale ha buona probabilità di influenzare quella che in sociologia è definita attenzione sociale, cioè l’attenzione che prestiamo agli altri esseri umani, in modo profondo e pervasivo. Lo status di appartenenza infatti modella l’ambiente in cui cresciamo, e definisce l’ ”ecologia” con cui guardiamo al mondo definendo le nostre abitudini di attenzione». Anche in questo caso, le persone che appartengono a ceti meno abbienti hanno livelli di attenzione verso gli altri e verso l’ambiente circostante più elevati. Le ragioni, secondo gli studiosi, potrebbero derivare da vari fattori: vivere in quartieri meno sicuri e quindi che richiedono maggiore allerta; maggiore necessità di fare affidamento sugli altri per sopravvivere perché si dispone di minori risorse. «Se hai potere e uno status – ha spiegato infatti Micheal Varnum al cronista del New York Magazine commentando la ricerca di Deietze – puoi disinteressarti di più di quello che le persone attorno a te pensano o sentono, allo stesso modo, se vivi in un ambiente dove le risorse sono scarse, sei costretto ad essere più attento, ad adattarti di più a chi ti sta intorno e quindi tenere in considerazione gli altri, come si sentono e che cosa hanno intenzione di fare». L’abito insomma non farà il monaco, ma in qualche modo contribuisce ad influenzare il modo in cui guarda al mondo.