È in programma per oggi l’udienza presso l’Alta Corte Federale in merito al ricorso dell’Eni sulla sospensione della licenza per il blocco Opl245, decisa lo scorso gennaio. L'Alta Corte è quella nigeriana, e il caso di cui si deve occupare è intricato: tocca Londra, Roma e il Paese africano, ed ha mille ramificazioni giudiziarie. Proviamo a ricostruirlo. Rischia di essere uno dei più grandi casi di corruzione della storia: la vicenda legata all'acquisizione da parte delle multinazionali petrolifere Eni e Shell del mega giacimento Opl 245 al largo delle coste nigeriane, sembra essere seriamente in corsa per centrare questo record tutt'altro che invidiabile. Nelle ultime settimane i magistrati milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro hanno comunicato l'avvenuta chiusura delle indagini, ma soprattutto chiesto il processo con l’accusa di concorso in corruzione internazionale per Claudio Descalzi, attuale ad dell'Eni, il suo predecessore Paolo Scaroni ed altri nove tra manager e mediatori vari. In quest'ultima categoria spicca il nome di Luigi Bisignani. Anche Eni e Shell potrebbero finire a processo per avere violato la legge 231 del 2001 sulla responsabilità delle società per presunti reati commessi dai propri dipendenti. Tecnicamente la mazzetta ammonterebbe a un miliardo e 300 milioni di dollari - 200 milioni versati dalla Shell, il resto dall'Eni. In teoria questa immensa quantità di danaro sarebbe dovuta andare al governo nigeriano, come stabilisce la normativa del Paese africano. Qui arriviamo a uno dei punti nodali del caso. Perché i bonifici dei due colossi petroliferi sono solo transitati per un conto fiduciario londinese dello Stato nigeriano, per poi finire tramite mille artifizi bancari alla Malabu, società cui facevano capo i diritti di sfruttamento del più grande giacimento petrolifero della Nigeria (9,23 miliardi di barili stimati). Piccolo inciso, nel 1998 il ministro del Petrolio del dittatore Sani Abacha, il potentissimo Dan Etete, si era auto-assegnato il giacimento Opl 245, pagando una cifra ridicola (20 milioni di dollari). Da quel momento in poi il proprietario occulto della Malabu è sempre stato lo stesso Etete, personaggio a dir poco controverso. Di questo passaggio fanno menzione anche due rapporti commissionati da Eni alla Risk Advisory Group nel 2007 e nel 2010, quando il colosso italiano ancora non faceva parte della partita. Fino al 2010 Shell aveva provato ad acquisire il blocco, senza successo. Poi lo stallo inizia a sbloccarsi anche grazie al lavoro di mediatori quali gli italiani Luigi Bisignani e Gianluca Di Nardo, il nigeriano Emeka Obi e il russo Ednan Agaev. L'affare si sblocca definitivamente grazie all'intervento del ministro della Giustizia Mohammed Adoke, che vuole che il nuovo governo in Nigeria svolga un ruolo più centrale nel negoziato. Le firme sui contratti si materializzano nell'aprile del 2011 e nell'arco di pochi giorni i pagamenti iniziali si disperdono in mille rivoli per andare a ingrossare, si ipotizza, i conti correnti di politici nigeriani di alto livello, dei già citati faccendieri e di manager dello stesso Cane a Sei Zampe. Vale la pena rammentare che nel settembre 2014, su richiesta della procura di Milano, una corte inglese aveva riconosciuto che 523 milioni di dollari del pagamento effettuato da Shell ed Eni erano andati a presunti “sodali dell’ex Presidente nigeriano Goodluck Jonathan” tramite società del “Signor Corruzione” Aliyu Abubakar. La stessa corte aveva quindi sequestrato 84 milioni di dollari rimasti sul conto della Malabu presso la sede della JP Morgan a Londra. Altri 112 milioni di dollari versati all’intermediario nigeriano Emeka Obi sono stati successivamente bloccati su diversi conti in Svizzera. Insomma, la popolazione nigeriana non ha beneficiato nemmeno di un centesimo delle centinaia di milioni pagati per la licenza. Torniamo un attimo agli 84 milioni londinesi. Nel 2013 il mediatore nigeriano Obi fa causa alla Malabu, che a suo dire non gli aveva riconosciuto il compenso per i suoi “servigi”. Obi deposita sms ed e-mail scambiati con Descalzi, oltre a documentare vari incontri, come per esempio una cena avuta con Agaev, Etete e lo stesso Descalzi all’Hotel Principe di Savoia di Milano. Quasi per caso viene così scoperchiato il vaso di Pandora dell'Opl 245. Senza quella causa, infatti, non si sarebbe mai saputo delle pesanti irregolarità che avvolgono questo affare miliardario. L'Eni si è sempre difesa affermando di aver trattato e siglato il contratto con il governo nigeriano. Che il denaro sia finito “altrove”, dice il Cane a Sei Zampe, è questione che non ci riguardava più. «La Società - si legge in un comunicato stampa del 22 dicembre scorso - non appena è venuta a conoscenza dell’esistenza di una indagine avente ad oggetto la procedura di acquisizione del blocco Opl 245, ha incaricato uno studio legale americano (Pepper Hamilton, ndr), di rinomata esperienza internazionale, del tutto indipendente, di condurre le più ampie verifiche sulla correttezza e la regolarità della predetta procedura. Dall’approfondita indagine indipendente è emersa la regolarità della procedura di acquisizione del blocco Opl 245, avvenuta nel rispetto delle normative vigenti». Sul suo blog il giornalista del Sole 24 Ore Claudio Gatti ha pubblicato email riservate e altri documenti che farebbero pensare a due accordi transattivi distinti - uno con il governo, l'altro con la Malabu. La compagnia nega risolutamente che una fetta della mega-mazzetta sia subito tornata indietro. Le carte dell'indagine, come scritto dal Fatto Quotidiano che è riuscito a ottenerle, racconterebbero invece di trasferimenti di valige con milioni di dollari in contanti tramite jet privati. Un ruolo tutt'altro che risibile in questa storia così intricata lo hanno giocato alcune organizzazioni della società civile italiana e britannica. A cominciare da Global Witness, che ha “pizzicato” la causa inglese, il vero elemento scatenante di questa vicenda. Per continuare con l'italiana Re:Common, che nel settembre del 2013 ha presentato l'esposto alla Procura di Milano che ha dato il là alle indagini. In questi anni insieme all'inglese Corner House e alla Fondazione Culturale Responsabilità Etica le associazioni hanno incalzato l'Eni durante le assemblee degli azionisti tramite la pratica, molto diffusa nel Nord Europa, dell'azionariato critico. Attualmente il fronte caldo è però principalmente in Nigeria. A gennaio l'Alta Corte Federale ha sospeso la licenza per Opl 245 fino a quando l'unità anti-corruzione avrà completato le sue indagini. A fine 2016, intanto, la stessa unità anti-corruzione aveva avanzato l'accusa di frode nei confronti del già citato Adoke, ministro della Giustizia del governo Jonathan, e di Etete. In un momento di vacche magre, causa il calo vertiginoso del prezzo del petrolio, per l'Eni il rischio di perdere un'Eldorado petrolifera quale Opl 245 si fa molto concreto. Non va dimenticato che già nel 2010 un caso di corruzione che la vide coinvolta per l'aggiudicazione di licenze per la realizzazione di impianti di liquefazione del gas a Bonny Island, nel Delta del Niger, costò alla multinazionale italiana 365 milioni di dollari, ovvero l'importo della mega-multa comminata dalla Sec americana. L'Eni è quotata a Wall Street e anche sul capitolo Opl245 l'equivalente della nostra Consob potrebbe intervenire, specialmente se le cose si dovessero mettere male per Descalzi & co. A proposito di Descalzi, fu l'ex premier Matteo Renzi a sceglierlo nella primavera del 2014 come successore di Paolo Scaroni. Una decisione difesa con fermezza poche settimane dopo la nomina formale di Descalzi, quando il caso Opl245 scoppiò in tutta la sua virulenza. Non bisogna infatti dimenticare che la più grande multinazionale italiana è controllata per poco più del 30% dallo Stato italiano tramite il ministero dell'Economia e la Cassa Depositi e Prestiti. Chissà che cosa pensano i grossi investitori stranieri (tra cui la statunitense Blackrock, il più grande fondo del Pianeta) che dall'inizio dell'anno si sono trovati a leggere sul Financial Times o sul New York Times articoli non proprio rassicuranti sull'esito finale della saga Opl245. Il board dell'Eni ha ribadito la fiducia a Descalzi, ma entro il 19 marzo, ovvero 25 giorni prima dell'assemblea degli azionisti in programma il 13 aprile, sapremo se l'esecutivo guidato da Paolo Gentiloni vorrà confermare un ad a rischio processo per corruzione internazionale oppure sostituirlo con Francesco Starace. L'attuale amministratore delegato dell'Enel, renziano di ferro, ha manifestato poca voglia di trasferirsi da viale Regina Margherita all'Eur. Dichiarazioni di facciata o dubbi reali sull'accomodarsi su una poltrona al momento scomoda come quella di amministratore delegato dell'Eni? Basta pazientare ancora qualche giorno e lo sapremo.

È in programma per oggi l’udienza presso l’Alta Corte Federale in merito al ricorso dell’Eni sulla sospensione della licenza per il blocco Opl245, decisa lo scorso gennaio. L’Alta Corte è quella nigeriana, e il caso di cui si deve occupare è intricato: tocca Londra, Roma e il Paese africano, ed ha mille ramificazioni giudiziarie. Proviamo a ricostruirlo.

Rischia di essere uno dei più grandi casi di corruzione della storia: la vicenda legata all’acquisizione da parte delle multinazionali petrolifere Eni e Shell del mega giacimento Opl 245 al largo delle coste nigeriane, sembra essere seriamente in corsa per centrare questo record tutt’altro che invidiabile. Nelle ultime settimane i magistrati milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro hanno comunicato l’avvenuta chiusura delle indagini, ma soprattutto chiesto il processo con l’accusa di concorso in corruzione internazionale per Claudio Descalzi, attuale ad dell’Eni, il suo predecessore Paolo Scaroni ed altri nove tra manager e mediatori vari. In quest’ultima categoria spicca il nome di Luigi Bisignani. Anche Eni e Shell potrebbero finire a processo per avere violato la legge 231 del 2001 sulla responsabilità delle società per presunti reati commessi dai propri dipendenti.

Tecnicamente la mazzetta ammonterebbe a un miliardo e 300 milioni di dollari – 200 milioni versati dalla Shell, il resto dall’Eni. In teoria questa immensa quantità di danaro sarebbe dovuta andare al governo nigeriano, come stabilisce la normativa del Paese africano. Qui arriviamo a uno dei punti nodali del caso. Perché i bonifici dei due colossi petroliferi sono solo transitati per un conto fiduciario londinese dello Stato nigeriano, per poi finire tramite mille artifizi bancari alla Malabu, società cui facevano capo i diritti di sfruttamento del più grande giacimento petrolifero della Nigeria (9,23 miliardi di barili stimati).

Piccolo inciso, nel 1998 il ministro del Petrolio del dittatore Sani Abacha, il potentissimo Dan Etete, si era auto-assegnato il giacimento Opl 245, pagando una cifra ridicola (20 milioni di dollari). Da quel momento in poi il proprietario occulto della Malabu è sempre stato lo stesso Etete, personaggio a dir poco controverso. Di questo passaggio fanno menzione anche due rapporti commissionati da Eni alla Risk Advisory Group nel 2007 e nel 2010, quando il colosso italiano ancora non faceva parte della partita.

Fino al 2010 Shell aveva provato ad acquisire il blocco, senza successo. Poi lo stallo inizia a sbloccarsi anche grazie al lavoro di mediatori quali gli italiani Luigi Bisignani e Gianluca Di Nardo, il nigeriano Emeka Obi e il russo Ednan Agaev. L’affare si sblocca definitivamente grazie all’intervento del ministro della Giustizia Mohammed Adoke, che vuole che il nuovo governo in Nigeria svolga un ruolo più centrale nel negoziato. Le firme sui contratti si materializzano nell’aprile del 2011 e nell’arco di pochi giorni i pagamenti iniziali si disperdono in mille rivoli per andare a ingrossare, si ipotizza, i conti correnti di politici nigeriani di alto livello, dei già citati faccendieri e di manager dello stesso Cane a Sei Zampe.

Vale la pena rammentare che nel settembre 2014, su richiesta della procura di Milano, una corte inglese aveva riconosciuto che 523 milioni di dollari del pagamento effettuato da Shell ed Eni erano andati a presunti “sodali dell’ex Presidente nigeriano Goodluck Jonathan” tramite società del “Signor Corruzione” Aliyu Abubakar. La stessa corte aveva quindi sequestrato 84 milioni di dollari rimasti sul conto della Malabu presso la sede della JP Morgan a Londra. Altri 112 milioni di dollari versati all’intermediario nigeriano Emeka Obi sono stati successivamente bloccati su diversi conti in Svizzera. Insomma, la popolazione nigeriana non ha beneficiato nemmeno di un centesimo delle centinaia di milioni pagati per la licenza.

Torniamo un attimo agli 84 milioni londinesi. Nel 2013 il mediatore nigeriano Obi fa causa alla Malabu, che a suo dire non gli aveva riconosciuto il compenso per i suoi “servigi”. Obi deposita sms ed e-mail scambiati con Descalzi, oltre a documentare vari incontri, come per esempio una cena avuta con Agaev, Etete e lo stesso Descalzi all’Hotel Principe di Savoia di Milano. Quasi per caso viene così scoperchiato il vaso di Pandora dell’Opl 245. Senza quella causa, infatti, non si sarebbe mai saputo delle pesanti irregolarità che avvolgono questo affare miliardario.

L’Eni si è sempre difesa affermando di aver trattato e siglato il contratto con il governo nigeriano. Che il denaro sia finito “altrove”, dice il Cane a Sei Zampe, è questione che non ci riguardava più. «La Società – si legge in un comunicato stampa del 22 dicembre scorso – non appena è venuta a conoscenza dell’esistenza di una indagine avente ad oggetto la procedura di acquisizione del blocco Opl 245, ha incaricato uno studio legale americano (Pepper Hamilton, ndr), di rinomata esperienza internazionale, del tutto indipendente, di condurre le più ampie verifiche sulla correttezza e la regolarità della predetta procedura. Dall’approfondita indagine indipendente è emersa la regolarità della procedura di acquisizione del blocco Opl 245, avvenuta nel rispetto delle normative vigenti».

Sul suo blog il giornalista del Sole 24 Ore Claudio Gatti ha pubblicato email riservate e altri documenti che farebbero pensare a due accordi transattivi distinti – uno con il governo, l’altro con la Malabu.

La compagnia nega risolutamente che una fetta della mega-mazzetta sia subito tornata indietro. Le carte dell’indagine, come scritto dal Fatto Quotidiano che è riuscito a ottenerle, racconterebbero invece di trasferimenti di valige con milioni di dollari in contanti tramite jet privati.

Un ruolo tutt’altro che risibile in questa storia così intricata lo hanno giocato alcune organizzazioni della società civile italiana e britannica. A cominciare da Global Witness, che ha “pizzicato” la causa inglese, il vero elemento scatenante di questa vicenda. Per continuare con l’italiana Re:Common, che nel settembre del 2013 ha presentato l’esposto alla Procura di Milano che ha dato il là alle indagini. In questi anni insieme all’inglese Corner House e alla Fondazione Culturale Responsabilità Etica le associazioni hanno incalzato l’Eni durante le assemblee degli azionisti tramite la pratica, molto diffusa nel Nord Europa, dell’azionariato critico.

Attualmente il fronte caldo è però principalmente in Nigeria. A gennaio l’Alta Corte Federale ha sospeso la licenza per Opl 245 fino a quando l’unità anti-corruzione avrà completato le sue indagini. A fine 2016, intanto, la stessa unità anti-corruzione aveva avanzato l’accusa di frode nei confronti del già citato Adoke, ministro della Giustizia del governo Jonathan, e di Etete. In un momento di vacche magre, causa il calo vertiginoso del prezzo del petrolio, per l’Eni il rischio di perdere un’Eldorado petrolifera quale Opl 245 si fa molto concreto. Non va dimenticato che già nel 2010 un caso di corruzione che la vide coinvolta per l’aggiudicazione di licenze per la realizzazione di impianti di liquefazione del gas a Bonny Island, nel Delta del Niger, costò alla multinazionale italiana 365 milioni di dollari, ovvero l’importo della mega-multa comminata dalla Sec americana. L’Eni è quotata a Wall Street e anche sul capitolo Opl245 l’equivalente della nostra Consob potrebbe intervenire, specialmente se le cose si dovessero mettere male per Descalzi & co.

A proposito di Descalzi, fu l’ex premier Matteo Renzi a sceglierlo nella primavera del 2014 come successore di Paolo Scaroni. Una decisione difesa con fermezza poche settimane dopo la nomina formale di Descalzi, quando il caso Opl245 scoppiò in tutta la sua virulenza.

Non bisogna infatti dimenticare che la più grande multinazionale italiana è controllata per poco più del 30% dallo Stato italiano tramite il ministero dell’Economia e la Cassa Depositi e Prestiti. Chissà che cosa pensano i grossi investitori stranieri (tra cui la statunitense Blackrock, il più grande fondo del Pianeta) che dall’inizio dell’anno si sono trovati a leggere sul Financial Times o sul New York Times articoli non proprio rassicuranti sull’esito finale della saga Opl245.

Il board dell’Eni ha ribadito la fiducia a Descalzi, ma entro il 19 marzo, ovvero 25 giorni prima dell’assemblea degli azionisti in programma il 13 aprile, sapremo se l’esecutivo guidato da Paolo Gentiloni vorrà confermare un ad a rischio processo per corruzione internazionale oppure sostituirlo con Francesco Starace. L’attuale amministratore delegato dell’Enel, renziano di ferro, ha manifestato poca voglia di trasferirsi da viale Regina Margherita all’Eur. Dichiarazioni di facciata o dubbi reali sull’accomodarsi su una poltrona al momento scomoda come quella di amministratore delegato dell’Eni? Basta pazientare ancora qualche giorno e lo sapremo.