Fino al 10 marzo il Teatro dell’Opera di Roma mette in scena Il trovatore di Giuseppe Verdi firmato da Alex Ollé (La Fura dels Baus), con la collaborazione di Valentina Carrasco. Sul podio, Jader Bignamini. Già chiamato a Roma per la Traviata di Sofia Coppola, il giovane e talentuoso direttore d’orchestra debutta ora nella direzione del Trovatore. Tra gli interpreti, Tatiana Serjan e Vittoria Yeo si alternano nel ruolo di Leonora, Stefano Secco e Fabio Sartori in quello di Manrico.
Il trovatore di Giuseppe Verdi è uno dei titoli più popolari nel panorama del melodramma. Alex Ollé è garanzia di regie innovative di straordinaria potenza visiva. Nessuna sorpresa quindi se il Teatro dell’Opera ha dovuto prevedere una replica supplementare per questo nuovo allestimento in prima italiana (dopo la co-produzione di Amsterdam e Parigi) che sta attirando un gran numero di spettatori.
Ollé torna a Roma dopo la sua sorprendente Madama Butterfly di Caracalla (estate 2015, ripresa l’anno successivo).
«Non è facile mettere in scena Il trovatore» afferma «non a torto la vicenda è definita assurda da molti critici». In effetti, nonostante l’immediato e clamoroso successo popolare, i giudizi negativi accompagnano quest’opera fin dalla prima rappresentazione, nel 1853. Dalla sua tenuta a Sant’Agata, Verdi scrive all’amica Clara Maffei: «Dicono che quest’opera è troppo triste, che ci sono troppi morti». Indubbiamente è una strage, ma il marchio distintivo del Trovatore non è tanto il numero delle vittime (il melodramma è sempre generoso sotto questo aspetto), quanto l’orrore e l’insensatezza dei sentimenti che lo attraversano.
È una storia truce e improbabile, a partire dall’antefatto: la zingara Azucena per vendicare la madre rapisce uno dei due figli del Conte di Luna, decisa a gettarlo nel fuoco, ma per un fatale errore vi getta il suo stesso figlio. Tutto si regge sull’orribile segreto della zingara; sullo sfondo la guerra civile spagnola del 1400, in primo piano l’odio tra fratelli (che non sanno di esserlo), il duello, l’inutile sacrificio d’amore di una donna, l’immancabile vendetta finale.
Impulsi violenti e primitivi, gesti inconsulti, sentimenti inconciliabili. Ma nel 1852 è Verdi stesso a scegliere questo tema, nel testo originale di Antonio García Gutiérrez, “El trovador”. È la prima opera che compone di sua iniziativa e non su commissione, collabora con Cammarano alla stesura del libretto (tra l’altro il librettista muore proprio in quell’anno e Verdi scrive di suo pugno gli ultimi versi), e se alla fine la critica non è del tutto favorevole, il pubblico gli dà ragione: la prima è un trionfo.
«Bisogna cercare la risposta nello spirito dell’epoca – spiega Ollé – Il trovatore è un ritratto dell’ideale di uomo alla metà del XIX secolo, in pieno Romanticismo: passionale, eroico, ribelle, trascinato dalle oscure forze della notte e dell’amore, pronto al sacrificio estremo. Nel Trovatore, sotto l’estetica del medio evo, pulsava, focoso e attualissimo, lo spirito del tempo».
È il Risorgimento, e si combatte su due piani: quello pubblico dei moti di insurrezione mazziniani, e quello privato del duello: i patrioti italiani e i giovani in divisa austriaca si sfidano ovunque, al minimo pretesto.
Ma come affrontare Il trovatore oggi?
Ollé punta a rendere plausibili le violente passioni di quest’opera portando in primo piano l’elemento della guerra. L’idea in sé non è nuova, l’aveva già fatto il regista Elijah Moshinsky nel 1983 all’Opera di Sidney, trasportando la vicenda agli anni di genesi dell’opera, in pieni moti insurrezionali. La messa in scena richiamava il film di Visconti, “Senso”, le cui scene iniziali si svolgono alla Fenice, proprio durante una rappresentazione del Trovatore.
Ollé però si spinge oltre. «Cerchiamo nella guerra un’ispirazione per quest’incubo che è Il trovatore» spiega «non si tratta di un conflitto concreto, la nostra messa in scena contiene sicuramente elementi della Prima Guerra Mondiale, ma anche di altre guerre, passate o future, medievali e futuristiche. (…) Pensiamo a una guerra di trincea, lunga, estenuante, con centinaia di morti, sporcizia, fango, fossati scavati nella terra, attraverso cui i quattro protagonisti si muovono nella loro appassionata storia d’amore e di vendetta. (…) Si configura un paesaggio umano che tocca un grado di fantasmagoria tale che qualsiasi storia di amore e odio alla fine diventa possibile».
Nell’insensatezza della guerra, quindi – di tutte le guerre – nel regno della barbarie per antonomasia, ogni atrocità diventa plausibile. Solo così Il trovatore trova una collocazione, che se non è realistica, è almeno simbolica.
«In realtà quest’opera potrebbe essere ambientata anche ai nostri giorni» – aggiunge Ollé – «senza che fosse nelle intenzioni iniziali, durante i lavori sono emersi naturalmente riferimenti ai temi dell’esodo e dei rifugiati».
Con la collaborazione di Alfons Flores per le scene e di Urs Schönebaum per le luci, Ollé crea atmosfere allucinate, suggestive, allegoriche. Alcune scene sono disegnate da parallelepipedi che si alzano e si abbassano, e che, a tratti, ricordano il “Memoriale dell’Olocausto” di Eisenman.
Tornando al Trovatore e ai giudizi della critica, quello di oscurità del testo non è neanche il più severo. A quest’opera si è imputato di ospitare “molta brutta musica” e una struttura che segna un passo indietro anche rispetto al recente Rigoletto (1851), riproponendo le tradizionali “forme chiuse” dell’opera: aria, cabaletta, concertato. Sotto accusa, in particolare, la scelta di ricorrere ai ritmi del valzer per la parte di Azucena. Si è detto che il valzer non era adatto al personaggio, che il risultato era di scarso valore musicale. Ma come in molti rilevano, quando si tratta di Verdi, la chiave è sempre “il teatro”. Le sue scelte, calate nella macchina teatrale, rivelano tutta la loro coerenza. Il valzer di Azucena non ha nessuna connotazione mondana o straniante (come, invece, in Strauss), ma tutta l’energia della danza popolare. Nella sua cupa circolarità, nella sua volgarità, anche, la musica risponde perfettamente al ruolo della zingara. Insomma, nell’ottica del teatro il giudizio sul valore artistico cambia diametralmente: Verdi sa quello che fa, anche in quest’opera dall’intreccio oscuro, dall’impianto tradizionale, dalla musica popolare. Si racconta che dopo ogni opera Verdi piantasse un albero nel giardino della sua villa a Sant’Agata. Per ricordare Il trovatore scelse la quercia, pianta maestosa, emblema di forza e solidità, ma anche contorta, dai molti rami intricati.
Fino al 10 marzo il Teatro dell’Opera di Roma mette in scena Il trovatore di Giuseppe Verdi firmato da Alex Ollé (La Fura dels Baus), con la collaborazione di Valentina Carrasco. Sul podio, Jader Bignamini. Già chiamato a Roma per la Traviata di Sofia Coppola, il giovane e talentuoso direttore d’orchestra debutta ora nella direzione del Trovatore. Tra gli interpreti, Tatiana Serjan e Vittoria Yeo si alternano nel ruolo di Leonora, Stefano Secco e Fabio Sartori in quello di Manrico.
Il trovatore di Giuseppe Verdi è uno dei titoli più popolari nel panorama del melodramma. Alex Ollé è garanzia di regie innovative di straordinaria potenza visiva. Nessuna sorpresa quindi se il Teatro dell’Opera ha dovuto prevedere una replica supplementare per questo nuovo allestimento in prima italiana (dopo la co-produzione di Amsterdam e Parigi) che sta attirando un gran numero di spettatori.
Ollé torna a Roma dopo la sua sorprendente Madama Butterfly di Caracalla (estate 2015, ripresa l’anno successivo).
«Non è facile mettere in scena Il trovatore» afferma «non a torto la vicenda è definita assurda da molti critici». In effetti, nonostante l’immediato e clamoroso successo popolare, i giudizi negativi accompagnano quest’opera fin dalla prima rappresentazione, nel 1853. Dalla sua tenuta a Sant’Agata, Verdi scrive all’amica Clara Maffei: «Dicono che quest’opera è troppo triste, che ci sono troppi morti». Indubbiamente è una strage, ma il marchio distintivo del Trovatore non è tanto il numero delle vittime (il melodramma è sempre generoso sotto questo aspetto), quanto l’orrore e l’insensatezza dei sentimenti che lo attraversano.
È una storia truce e improbabile, a partire dall’antefatto: la zingara Azucena per vendicare la madre rapisce uno dei due figli del Conte di Luna, decisa a gettarlo nel fuoco, ma per un fatale errore vi getta il suo stesso figlio. Tutto si regge sull’orribile segreto della zingara; sullo sfondo la guerra civile spagnola del 1400, in primo piano l’odio tra fratelli (che non sanno di esserlo), il duello, l’inutile sacrificio d’amore di una donna, l’immancabile vendetta finale.
Impulsi violenti e primitivi, gesti inconsulti, sentimenti inconciliabili. Ma nel 1852 è Verdi stesso a scegliere questo tema, nel testo originale di Antonio García Gutiérrez, “El trovador”. È la prima opera che compone di sua iniziativa e non su commissione, collabora con Cammarano alla stesura del libretto (tra l’altro il librettista muore proprio in quell’anno e Verdi scrive di suo pugno gli ultimi versi), e se alla fine la critica non è del tutto favorevole, il pubblico gli dà ragione: la prima è un trionfo.
«Bisogna cercare la risposta nello spirito dell’epoca – spiega Ollé - Il trovatore è un ritratto dell’ideale di uomo alla metà del XIX secolo, in pieno Romanticismo: passionale, eroico, ribelle, trascinato dalle oscure forze della notte e dell’amore, pronto al sacrificio estremo. Nel Trovatore, sotto l’estetica del medio evo, pulsava, focoso e attualissimo, lo spirito del tempo».
È il Risorgimento, e si combatte su due piani: quello pubblico dei moti di insurrezione mazziniani, e quello privato del duello: i patrioti italiani e i giovani in divisa austriaca si sfidano ovunque, al minimo pretesto.
Ma come affrontare Il trovatore oggi?
Ollé punta a rendere plausibili le violente passioni di quest’opera portando in primo piano l’elemento della guerra. L’idea in sé non è nuova, l’aveva già fatto il regista Elijah Moshinsky nel 1983 all’Opera di Sidney, trasportando la vicenda agli anni di genesi dell’opera, in pieni moti insurrezionali. La messa in scena richiamava il film di Visconti, “Senso”, le cui scene iniziali si svolgono alla Fenice, proprio durante una rappresentazione del Trovatore.
Ollé però si spinge oltre. «Cerchiamo nella guerra un’ispirazione per quest’incubo che è Il trovatore» spiega «non si tratta di un conflitto concreto, la nostra messa in scena contiene sicuramente elementi della Prima Guerra Mondiale, ma anche di altre guerre, passate o future, medievali e futuristiche. (…) Pensiamo a una guerra di trincea, lunga, estenuante, con centinaia di morti, sporcizia, fango, fossati scavati nella terra, attraverso cui i quattro protagonisti si muovono nella loro appassionata storia d’amore e di vendetta. (…) Si configura un paesaggio umano che tocca un grado di fantasmagoria tale che qualsiasi storia di amore e odio alla fine diventa possibile».
Nell’insensatezza della guerra, quindi - di tutte le guerre - nel regno della barbarie per antonomasia, ogni atrocità diventa plausibile. Solo così Il trovatore trova una collocazione, che se non è realistica, è almeno simbolica.
«In realtà quest’opera potrebbe essere ambientata anche ai nostri giorni» – aggiunge Ollé – «senza che fosse nelle intenzioni iniziali, durante i lavori sono emersi naturalmente riferimenti ai temi dell’esodo e dei rifugiati».
Con la collaborazione di Alfons Flores per le scene e di Urs Schönebaum per le luci, Ollé crea atmosfere allucinate, suggestive, allegoriche. Alcune scene sono disegnate da parallelepipedi che si alzano e si abbassano, e che, a tratti, ricordano il “Memoriale dell’Olocausto” di Eisenman.
Tornando al Trovatore e ai giudizi della critica, quello di oscurità del testo non è neanche il più severo. A quest’opera si è imputato di ospitare “molta brutta musica” e una struttura che segna un passo indietro anche rispetto al recente Rigoletto (1851), riproponendo le tradizionali “forme chiuse” dell’opera: aria, cabaletta, concertato. Sotto accusa, in particolare, la scelta di ricorrere ai ritmi del valzer per la parte di Azucena. Si è detto che il valzer non era adatto al personaggio, che il risultato era di scarso valore musicale. Ma come in molti rilevano, quando si tratta di Verdi, la chiave è sempre “il teatro”. Le sue scelte, calate nella macchina teatrale, rivelano tutta la loro coerenza. Il valzer di Azucena non ha nessuna connotazione mondana o straniante (come, invece, in Strauss), ma tutta l’energia della danza popolare. Nella sua cupa circolarità, nella sua volgarità, anche, la musica risponde perfettamente al ruolo della zingara. Insomma, nell’ottica del teatro il giudizio sul valore artistico cambia diametralmente: Verdi sa quello che fa, anche in quest’opera dall’intreccio oscuro, dall’impianto tradizionale, dalla musica popolare. Si racconta che dopo ogni opera Verdi piantasse un albero nel giardino della sua villa a Sant’Agata. Per ricordare Il trovatore scelse la quercia, pianta maestosa, emblema di forza e solidità, ma anche contorta, dai molti rami intricati.