Il regolamento Dublino sta per essere nuovamente - e per la quarta volta - riformato. Da anni l'Unione europea cerca, senza riuscirci, di armonizzare le politiche d’asilo dei diversi Stati membri, ma un equilibrio tra le legislazioni nazionali ancora non è stato trovato. Il principale dei documenti in materia di diritto d’asilo è il regolamento di Dublino, sottoscritto e adottato dall’Ue e anche da Paaesi non membri, come la Svizzera. Secondo il regolamento la domanda deve essere esaminata nel primo Paese di ingresso, impedendo quindi di presentare una domanda di asilo in più di uno Stato membro. Per verificare che sia effettivamente così, poi, l'Ue ha adottato il sistema Eurodac: un archivio comune delle impronte digitali dei richiedenti asilo tramite il quale la polizia può controllare che non siano state presentate diverse domande. E se i richiedenti hanno il diritto a rimanere nel Paese di arrivo finché non hanno ottenuto una risposta – che in Italia può richiedere un'attesa in media di 18 mesi – hanno anche il divieto di lasciare quel Paese. Secondo la legge, poi, se la richiesta d’asilo viene respinta il richiedente può fare appello. In Italia ancora per poco. Il piano Minniti già annunciato dal Viminlae, infatti, come leggerete nello sfoglio di primo piano del prossimo numero di Left, prevede che i gradi di giudizio vengano ridotti da tre a due, in barba alla Costituzione repubblicana. In definitiva, né il Consiglio europeo né l'Unhcr si dicono soddisfati di questo sistema, anzi lamentano da tempo che non sia in grado di fornire una protezione equa ed efficiente ai richiedenti asilo, non tiene conto del ricongiungimento familiare e produce una pressione sugli Stati membri del Sud, in testa Grecia e Italia. In vista della discussione parlamentare, ormai alle porte, abbiamo fatto tre domande alla eurodeputata di Possibile Elly Schlein che partecipa al team negoziale del Parlamento europeo. In merito, sabato 4 marzo, a Bologna, si terrà un incontro con le istituzioni, gli esperti e le principali organizzazioni attive sul tema dell'asilo. Italia e la Grecia sono ormai diventate una sorta di gabbia per esseri umani. In Parlamento state lavorando alle modifiche del Regolamento Dublino, cosa possiamo aspettarci? Di solito sono un'ottimista, ma su questo mi riesce difficile. La distanza tra la discussione in Parlamento e in Consiglio è siderale. I governi non stanno nemmeno discutendo la già debole e insufficiente proposta di riforma della Commissione, ma stanno immaginando fantasiose soluzioni di "solidarietà effettiva" che evitino qualsiasi obbligo di condivisione delle responsabilità sulle richieste d'asilo, e che mantengano in capo al Consiglio europeo l'ultima parola su qualsiasi intervento. Che vuole dire condannarsi all'inazione. È la quarta volta che si riforma Dublino, quale modifica sarebbe davvero necessaria? Sarebbe l'ora di correggere l'ipocrisia originaria, superando il criterio del primo Paese d'accesso, verso un meccanismo automatico e permanente di condivisione delle responsabilità tra Stati membri, come il Parlamento ha già chiesto a più riprese e con larghe maggioranze. E invece si costruiscono i muri... A quelli che in Italia plaudono la costruzione di nuovi muri, bisognerebbe segnalare che noi siamo dalla parte sbagliata del muro, come si è visto bene nel 2016 con la chiusura di Ventimiglia, Brennero e Chiasso. L'unico modo per evitare i movimenti secondari, sarebbe sviluppare un sistema basato sulla fiducia reciproca, che fornisca procedure rapide e prospettive chiare per il futuro delle persone, e che tenga in conto il più possibile delle preferenze espresse e dei legami esistenti dei richiedenti asilo, dando prevalenza assoluta al ricongiungimento familiare (specialmente per i minori non accompagnati). Se partiamo dagli art. 78 e 80 dei Trattati, che già chiedono solidarietà ed equa condivisone delle responsabilità, ne deriva che ogni Stato membro deve fare la sua parte. Noi insisteremo per ascoltare chi esprime una preferenza per quello Stato: per motivi di lingua, legami culturali, presenza precedente in uno Stato membro, opportunità di lavoro in quello Stato, presenza di famiglia allargata. Ne abbiamo tutto l'interesse, aiuterebbe anche le prospettive di inserimento sociale.  

Il regolamento Dublino sta per essere nuovamente – e per la quarta volta – riformato. Da anni l’Unione europea cerca, senza riuscirci, di armonizzare le politiche d’asilo dei diversi Stati membri, ma un equilibrio tra le legislazioni nazionali ancora non è stato trovato. Il principale dei documenti in materia di diritto d’asilo è il regolamento di Dublino, sottoscritto e adottato dall’Ue e anche da Paaesi non membri, come la Svizzera. Secondo il regolamento la domanda deve essere esaminata nel primo Paese di ingresso, impedendo quindi di presentare una domanda di asilo in più di uno Stato membro. Per verificare che sia effettivamente così, poi, l’Ue ha adottato il sistema Eurodac: un archivio comune delle impronte digitali dei richiedenti asilo tramite il quale la polizia può controllare che non siano state presentate diverse domande. E se i richiedenti hanno il diritto a rimanere nel Paese di arrivo finché non hanno ottenuto una risposta – che in Italia può richiedere un’attesa in media di 18 mesi – hanno anche il divieto di lasciare quel Paese. Secondo la legge, poi, se la richiesta d’asilo viene respinta il richiedente può fare appello. In Italia ancora per poco. Il piano Minniti già annunciato dal Viminlae, infatti, come leggerete nello sfoglio di primo piano del prossimo numero di Left, prevede che i gradi di giudizio vengano ridotti da tre a due, in barba alla Costituzione repubblicana. In definitiva, né il Consiglio europeo né l’Unhcr si dicono soddisfati di questo sistema, anzi lamentano da tempo che non sia in grado di fornire una protezione equa ed efficiente ai richiedenti asilo, non tiene conto del ricongiungimento familiare e produce una pressione sugli Stati membri del Sud, in testa Grecia e Italia. In vista della discussione parlamentare, ormai alle porte, abbiamo fatto tre domande alla eurodeputata di Possibile Elly Schlein che partecipa al team negoziale del Parlamento europeo. In merito, sabato 4 marzo, a Bologna, si terrà un incontro con le istituzioni, gli esperti e le principali organizzazioni attive sul tema dell’asilo.

Italia e la Grecia sono ormai diventate una sorta di gabbia per esseri umani. In Parlamento state lavorando alle modifiche del Regolamento Dublino, cosa possiamo aspettarci?
Di solito sono un’ottimista, ma su questo mi riesce difficile. La distanza tra la discussione in Parlamento e in Consiglio è siderale. I governi non stanno nemmeno discutendo la già debole e insufficiente proposta di riforma della Commissione, ma stanno immaginando fantasiose soluzioni di “solidarietà effettiva” che evitino qualsiasi obbligo di condivisione delle responsabilità sulle richieste d’asilo, e che mantengano in capo al Consiglio europeo l’ultima parola su qualsiasi intervento. Che vuole dire condannarsi all’inazione.
È la quarta volta che si riforma Dublino, quale modifica sarebbe davvero necessaria?
Sarebbe l’ora di correggere l’ipocrisia originaria, superando il criterio del primo Paese d’accesso, verso un meccanismo automatico e permanente di condivisione delle responsabilità tra Stati membri, come il Parlamento ha già chiesto a più riprese e con larghe maggioranze.
E invece si costruiscono i muri…
A quelli che in Italia plaudono la costruzione di nuovi muri, bisognerebbe segnalare che noi siamo dalla parte sbagliata del muro, come si è visto bene nel 2016 con la chiusura di Ventimiglia, Brennero e Chiasso. L’unico modo per evitare i movimenti secondari, sarebbe sviluppare un sistema basato sulla fiducia reciproca, che fornisca procedure rapide e prospettive chiare per il futuro delle persone, e che tenga in conto il più possibile delle preferenze espresse e dei legami esistenti dei richiedenti asilo, dando prevalenza assoluta al ricongiungimento familiare (specialmente per i minori non accompagnati). Se partiamo dagli art. 78 e 80 dei Trattati, che già chiedono solidarietà ed equa condivisone delle responsabilità, ne deriva che ogni Stato membro deve fare la sua parte. Noi insisteremo per ascoltare chi esprime una preferenza per quello Stato: per motivi di lingua, legami culturali, presenza precedente in uno Stato membro, opportunità di lavoro in quello Stato, presenza di famiglia allargata. Ne abbiamo tutto l’interesse, aiuterebbe anche le prospettive di inserimento sociale.