L’odissea di una signora di 41 anni che per abortire ha dovuto girare ben 23 ospedali fra Veneto, Trentino, e regioni limitrofe è purtroppo paradigmatica della violazione dei diritti delle donne in Italia, dove la legge 194 è in larghissima parte disapplicata, lasciando il campo aperto a casi di vera e propria omissione di servizio. Nel caso in questione, solo dopo un intervento della Cgil, la situazione si è sbloccata: «La stragrande maggioranza dei medici si dichiara ‘obiettore di coscienza’ le liste d’attesa per l’interruzione volontaria di gravidanza diventano pericolosamente lunghe costringendo le donne a rivolgersi quando va bene, alle strutture private, o peggio a fare ricorso all’aborto clandestino, una vergogna sociale che la Legge 194 era nata proprio per contrastare», si legge in una nota, la Cgil regionale del Veneto che chiede, com’è successo nella Regione Lazio, l’assunzione di “medici non obiettori anche in Veneto”. Il caso del San Camillo di Roma dove è stato fatto un concorso ad hoc per coprire il servizio medico di interruzione di gravidanza non è il solo. Un percorso nascita a Triggiano in provincia di Bari è attivo grazie a un concorso simile. Ma deve rispondere a tutte le donne del barese e oltre che chiedono di fare un’interruzione volontaria di gravidanza, «con carichi di lavoro e difficoltà logistiche sempre maggiori. All’Unità lavorano due ginecologhe: «l’unica non obiettrice dell’ospedale “Di Venere” di Bari, Giulia Caradonna, porta avanti il servizio insieme ad una collega territoriale, assunta in seguito ad un bando ad hoc per 30 ore settimanali per l’interruzione di gravidanza». Lo raccontaEleonora Cirant sul blog Un’inchiesta sull’aborto.
Indire concorsi per medici non obiettori di coscienza ovviamente un modo per tamponare, non è la soluzione del problema. Perché viste le percentuali altrissime di obiettori di coscienza nei reparti di ginecologia ciò che accade è che intere strutture ospedaliere non fanno interruzioni di gravidanza, perché manca del tutto il personale. «Non è ammissibile l’obiezione di struttura», sottolinea con passione la ginecologa Anna Pomili. «Il ministro della Salute Lorenzin ha detto candidamente che più del 35 per cento delle strutture che sarebbero tenute a rispettare la legge, la ignorano completamente. Non si può accettare che quando non c’è un servizio si dia la mano alla signora augurandole tante care cose. Quelle stesse strutture dovrebbero farsi carico dell’iter per l’espletamento della procedura. Nel caso accaduto a Padova la signora è dovuta andare vagando per tutto il Nord Italia per poter avere risposta alla sua domanda di salute. Non è ammissibile» ribadisce la ginecologa che con Amica ( associazione medici italiani contraccezione e aborto) ha scritto una indignata lettera al presidente dell’Ordine dei medici del Lazio per la sua presa di posizione contro il concorso al San Camillo. «L’articolo 9 della legge 194 salavaguarda il diritto a sollevare l’obiezione di coscienza, ma la seconda parte di quell’articolo afferma che le strutture sanitarie devono espletare le procedure sanitarie». La ginecologa Anna Pompili punta il dito sulla responsabilità delle Regioni «perché la legge prevede che controllino e sorveglino sull’applicazione della 194». Ma le Regioni latitano. E intanto «si grida allo scandalo quando timidamente, come ha fatto la Regione Lazio, si cerca di risolvere il problema dell’uso strumentale dell’obiezione di coscienza» . Perché, sottolinea Pompili, «Il problema è l’uso strumentale dell’obiezione di coscienza per motivi di comodo, ideologici. Il periodo di prova dura sei mesi e se il medico assunto a sei mesi e un giorno viene folgorato dalla crisi mistica non credo sia così facile licenziarlo». Anche per questo con l’onorevole Marisa Nicchi, la ginecologa romana ha lavorato ad una proposta di legge che cerca di ovviare al problema creando dei centri di fisio-patologia della riproduzione, che si occupino sia alla diagnostica prenatale sia delle interruzioni di gravidanza.
«Il punto cruciale è ridare alle donne la possibilità di decidere, lo si può fare garantendo l’accesso all’interruzione di gravidanza per via farmacologica, che implica un minore impegno medico che in questo modo può rispondere a più persone». dice Anna Pompili ribadendo che la battaglia non è solo per garantire la piena applicazione della legge, ma è anche una battaglia culturale.
Capita ogni giorno infatti che i media italiani diano spazio a interventi di ginecologi cattolici che parlano di depressione come conseguenza inevitabile di un aborto. Il retro pensiero nenache tanto nascosto è che l’aborto sia un omicidio e le donne siano assassine. Quando invece la moderna neonatologia dice che il feto è completamente diverso dal bambinio e che la nascita è una grande cesura.
«La grossa battaglia culturale è la costruzione di un’etica che sia libera da legacci ideologici e religiosi c’è chi crede che l’aborto sia un piccolo omicidio, per il quale l’effetto salvifico sarebbe il grande dolore della donna, pernsare che una donma possa scegliere liberamente, senza questa epica del dolore , è per i cattolici inammissibile. In questo modo sono proprio i medici obiettori a fare un danno alle donne, che fanno venire loro la depressione. In radio ho sentito un collega, medico obiettore del Molise , dire per lui l’obiettivo è convincere una donna a non abortire. Io invece sono felice quando riesco a permettere a una donna di esercitare la propria volontà e decisione».