Intorno a Corbyn, l’aria si è fatta sottile. Non sono più soltanto i moderati infatti a tirare per la giacchetta il leader del Labour, bensì anche chi, finora, ha rappresentato l’appoggio più solido di “Jez” nel mondo della stampa e della politica. Perché? Circa due settimane fa, il Labour ha perso la così detta “by-election” a Copeland e consegnato il seggio parlamentare al partito conservatore di Theresa May. Nello stesso fine settimana si è votato anche a Stoke, dove il partito laburista è invece riuscito ad arginare il Partito per l’indipendenza del Regno Unito (Ukip). Ma visto che entrambe le circoscrizioni rappresentavano delle vere e proprie roccaforti del Labour, il risultato, ha lasciato comunque l’amaro in bocca. Subito dopo il voto sul The Spectator, Isabel Hardman ha sottolinea che Copeland rappresenta, aritmeticamente, la peggior sconfitta di un’opposizione in una “by-election”, dal 1945 a questa parte; senza contare che il seggio in questione era “rosso” dal 1935. Inevitabili quindi, nei giorni a seguire, le critiche nei confronti di Corbyn da parte degli “alleati” politici. Tom Watson, ha sostenuto che la leadership del partito «debba analizzare criticamente la propria strategia». Gerard Coyne - candidato alla guida di Unite e avversario dell’uomo di Corbyn dentro al sindacato,  McCluskey – ha affermato: «Unite ha messo a disposizione risorse per sostenere un leader che sembra fuori traiettoria rispetto alle nostre politiche industriali e ai bisogni degli iscritti». Keir Stramer, Ministro ombra per la Brexit, non ha usato mezzi termini: «Il Labour non ha chance di vincere le elezioni del 2020». Una posizione, questa ultima, che è stata condivisa addirittura dai portavoce dello stesso Corbyn. Dal canto suo, David Milliband ha messo sotto processo la linea «di sinistra» del partito, affermando che il problema non sta tanto – o almeno, non solo - nelle ricadute elettorali negative: «Sono convinto che ci siano strategie migliori per ottenere cambiamenti radicali e di sostanza». L’unica voce fuori dal coro è stata quella di John McDonnell. Sulla scorta delle polemiche, McDonnell ha denunciato che, dopo l’attacco fallito alla leadership nel 2016, sarebbe in corso un nuovo tentativo “morbido” (“soft coup”) di delegittimazione del leader di Chippenham. E Corbyn? Dopo la sconfitta, il leader del Labour si è assunto alcune responsabilità, ma ha anche provato a difendere il successo di Stoke. Inoltre, ha chiesto più tempo per sviluppare politiche avvincenti. Corbyn ha spiegato quanto sia difficile emergere in un Paese in cui i media sono schierati soprattutto a destra. Ma il problema è che di tempo a disposizione non ce n’è più molto. Anche perché non sono soltanto gli opinionisti di destra ad andare contro il leader del Labour a questo punto. Il giorno dopo il voto, Jonathan Freedland – un’opinionista laburista, ma da sempre avverso a Corbyn – ha scritto: «Corbyn se ne deve andare» e che «spetta al movimento “Momentum” e alla rappresentanza dei sindacati, più vicini a Corbyn, far scendere dal podio il proprio leader». Di ieri invece, l’intervento di Martin Kettle, che denuncia un partito «in fiamme». In particolare, Kettle ha denunciato l’appiattimento del Labour su immigrazione e Brexit, temi rispetto ai quali il partito “scimmiotterebbe” i Tories: «[In questo atteggiamento], non c’è traccia di socialismo, socialdemocrazia, liberalismo; non c’è moralità, né ottimismo o immaginazione. Non appare alcun obiettivo, se non quello della mera sopravvivenza […] ». Ma la botta più dura è arrivata da Owen Jones, storicamente una colonna del movimento che ha portato Corbyn alla testa del Labour: «Corbyn è un politico esemplare e fatto di sani principi. Ma deve prendere una decisione, così come i suoi oppositori. A prescindere da ciò che accadrà alla leadership del partito, Corbyn deve delineare una strategia chiara e coerente per superare la crisi esistenziale del Labour […] Se non dovesse essere in grado, è arrivata l’ora per un accordo che faccia spazio a un giovane del partito, rappresentativo delle nuove generazioni, e che dia sostanza all’entusiasmo della base».    

Intorno a Corbyn, l’aria si è fatta sottile. Non sono più soltanto i moderati infatti a tirare per la giacchetta il leader del Labour, bensì anche chi, finora, ha rappresentato l’appoggio più solido di “Jez” nel mondo della stampa e della politica. Perché?

Circa due settimane fa, il Labour ha perso la così detta “by-election” a Copeland e consegnato il seggio parlamentare al partito conservatore di Theresa May. Nello stesso fine settimana si è votato anche a Stoke, dove il partito laburista è invece riuscito ad arginare il Partito per l’indipendenza del Regno Unito (Ukip).

Ma visto che entrambe le circoscrizioni rappresentavano delle vere e proprie roccaforti del Labour, il risultato, ha lasciato comunque l’amaro in bocca. Subito dopo il voto sul The Spectator, Isabel Hardman ha sottolinea che Copeland rappresenta, aritmeticamente, la peggior sconfitta di un’opposizione in una “by-election”, dal 1945 a questa parte; senza contare che il seggio in questione era “rosso” dal 1935.

Inevitabili quindi, nei giorni a seguire, le critiche nei confronti di Corbyn da parte degli “alleati” politici.

Tom Watson, ha sostenuto che la leadership del partito «debba analizzare criticamente la propria strategia». Gerard Coyne – candidato alla guida di Unite e avversario dell’uomo di Corbyn dentro al sindacato,  McCluskey – ha affermato: «Unite ha messo a disposizione risorse per sostenere un leader che sembra fuori traiettoria rispetto alle nostre politiche industriali e ai bisogni degli iscritti». Keir Stramer, Ministro ombra per la Brexit, non ha usato mezzi termini: «Il Labour non ha chance di vincere le elezioni del 2020». Una posizione, questa ultima, che è stata condivisa addirittura dai portavoce dello stesso Corbyn. Dal canto suo, David Milliband ha messo sotto processo la linea «di sinistra» del partito, affermando che il problema non sta tanto – o almeno, non solo – nelle ricadute elettorali negative: «Sono convinto che ci siano strategie migliori per ottenere cambiamenti radicali e di sostanza».

L’unica voce fuori dal coro è stata quella di John McDonnell. Sulla scorta delle polemiche, McDonnell ha denunciato che, dopo l’attacco fallito alla leadership nel 2016, sarebbe in corso un nuovo tentativo “morbido” (“soft coup”) di delegittimazione del leader di Chippenham.

E Corbyn? Dopo la sconfitta, il leader del Labour si è assunto alcune responsabilità, ma ha anche provato a difendere il successo di Stoke. Inoltre, ha chiesto più tempo per sviluppare politiche avvincenti. Corbyn ha spiegato quanto sia difficile emergere in un Paese in cui i media sono schierati soprattutto a destra.

Ma il problema è che di tempo a disposizione non ce n’è più molto. Anche perché non sono soltanto gli opinionisti di destra ad andare contro il leader del Labour a questo punto.

Il giorno dopo il voto, Jonathan Freedland – un’opinionista laburista, ma da sempre avverso a Corbyn – ha scritto: «Corbyn se ne deve andare» e che «spetta al movimento “Momentum” e alla rappresentanza dei sindacati, più vicini a Corbyn, far scendere dal podio il proprio leader». Di ieri invece, l’intervento di Martin Kettle, che denuncia un partito «in fiamme». In particolare, Kettle ha denunciato l’appiattimento del Labour su immigrazione e Brexit, temi rispetto ai quali il partito “scimmiotterebbe” i Tories: «[In questo atteggiamento], non c’è traccia di socialismo, socialdemocrazia, liberalismo; non c’è moralità, né ottimismo o immaginazione. Non appare alcun obiettivo, se non quello della mera sopravvivenza […] ».

Ma la botta più dura è arrivata da Owen Jones, storicamente una colonna del movimento che ha portato Corbyn alla testa del Labour: «Corbyn è un politico esemplare e fatto di sani principi. Ma deve prendere una decisione, così come i suoi oppositori. A prescindere da ciò che accadrà alla leadership del partito, Corbyn deve delineare una strategia chiara e coerente per superare la crisi esistenziale del Labour […] Se non dovesse essere in grado, è arrivata l’ora per un accordo che faccia spazio a un giovane del partito, rappresentativo delle nuove generazioni, e che dia sostanza all’entusiasmo della base».