CITTÀ DEL MESSICO. Un cartello gigante, con tante linee vuote in cui scrivere i nomi di tutte le donne che non possono esserci, che non possono scioperare altrimenti il giorno dopo verrebbero licenziate. L’opera d’arte dell’artista femminista Lorena Wolfer circola per le strade di Città del Messico e riempie l’assenza attraverso la presenza delle altre. Perché il corpo di una è quello di tutte.
8 marzo 2017. Si marcia per strada, con lo stesso slogan nella testa: se il mio corpo non vi interessa, allora producete senza di me. Tutto è iniziato un anno fa, nell’aprile 2016, con una manifestazione in cui si gridava “Ni una menos” (non una in meno), slogan lanciato dalle donne latinoamericane per il resto del mondo. Si rivendicava la vita, si passava dallo storico slogan: “Ni una mas” (non una in più) ad affermare che “ci vogliamo vive”, puntando sulla presenza dei corpi più che sulle assenze.
Quando i giornalisti stranieri chiedono i dati dei femminicidi in Messico, ripetono sempre due volte la domanda, perché pensano di non aver capito bene. La risposta invece è sempre la stessa: dei 32 Stati della Repubblica federale messicana oggi è Estado de México ad occupare il primo posto per femminicidi con 7.745 vittime dal 2006 al 2014 (il dato è dell’Observatorio Ciudadano Nacional del Feminicidio, Ocnf). Poi i giornalisti cercano il dato generale, ma quello è da aggiornare ogni istante. Nessuno può darlo con certezza, perché ogni giorno vengono uccise in media 7 donne in tutto il Paese, con un indice di impunitá del 90 per cento. Questo vuol dire che molto probabilmente non conosceremo mai il nome di nessuno degli assassini delle 7 donne che verranno uccise oggi.
Prima che un altro anno passasse, le donne messicane hanno organizzato uno sciopero nazionale e dall’America Latina la mobilitazione si è estesa nel resto del modo. Questa volta saranno i corpi più vulnerabili a lanciare il messaggio politico più importante: se ci uccidete, allora noi paramos, ci fermiamo.
“Un genocidio, una vera e propia guerra non dichiarta contro i nostri stessi corpi”, scrivono nei comunicati, le associazioni e le famiglie delle vittime che da anni lottano da sole per ritrovare i corpi, o solo pochi frammenti, delle loro figlie, sorelle, amiche. Per ritrovare, sì, perché l’indice delle scomparse (desapariciones) in centro america è più alto oggi di quello vissuto durante le dittature degli anni Settanta: solo in Messico dal 2006 ad oggi si contano, tra uomini e donne, più di 26 desaparecidos e desaparecidas. E le madri che non vedono più ritornare le loro figlie a casa, già dopo una settimana lo sanno: ogni desaparición è un femminicidio annunciato. Questo 8 marzo ci sono anche loro, con quei cartelli sempre attaccati al collo, quasi come se le fotografie delle loro figlie scomparse siano diventate un prolungamento dei loro stessi corpi.
Oggi tutte marciano e usano la propria vulnerabilitá come messaggio politico: Ciudad de Juarez, la città più pericolosa del mondo per le donne, sulla frontiera tra Messico e Stati Uniti, è oggi tutto il Messico. E questo sistema, riproducibile con maggiore o minore intensità in tutti i contesti, riguarda i corpi di tutti.