«Siamo contrari all'abolizione dei voucher», diceva Matteo Renzi non troppo tempo fa, nel maggio 2016, rispondendo a un'interrogazione alla Camera. Argomentava così la sua certezza, l'allora presidente: «I percettori di voucher oscillano tra 1,9% e 2,7% della forza lavoro, in larga parte turismo e commercio», «è emersione del nero», «se ci sono eccessi siamo pronti a discuterne». Oggi, evidentemente, deve aver cambiato idea, anche se non lo dice e anzi si noterà che a palazzo Chigi non c'è più lui e che non è neanche più segretario del Pd: insomma, si dirà che non è sua responsabilità, l'ennesima giravolta. Perché invece oggi i voucher - i buoni lavoro da dieci euro lordi il cui uso è esploso - vengono aboliti, integralmente, come chiede il quesito referendario della Cgil, rinunciando persino alla proposta di Cesare Damiano, il presidente della commissione lavoro della Camera che suggeriva di tornare più o meno a come lui, da ministro, aveva applicatolo lo strumento comunque voluto dal forzista Maurizio Sacconi. I voucher, dice ragionevole Damiano - e per la Cgil sarebbe già stata una vittoria, una soluzione forse persino più corretta della diretta abrogazione - sarebbero rimasti per le famiglie, per pagare baby sitter & co e solo per alcuni lavori stagionali, come la vendemmia, e destinati a studenti o pensionati. Ma si abolisce, dicevamo, (quelli già venduti si potranno spendere fino al 31 dicembre) ed è una buona notizia (e prova ne sia i tanti, da Confindustria in giù, che protestano: "Un passo indietro di vent'anni", titola il Sole). Ma siccome nessuno, né Renzi né Poletti né un big del Pd, ha contestualmente preso la parola per chiedere scusa e dire "ci siamo sbagliati, per anni abbiamo difeso quello che, in un Paese che già ha decime di contratti compreso uno sul lavoro occasionale, è uno strumento di precarietà", la buona notizia ha un lato meno buono. Perché l'abrogazione, votata dalla commissione lavoro sotto forma di emendamento al testo base di riforma e poi fatta propria dal governo che procede rapidamente per decreto, è evidente, non è arrivata per valutazioni di merito, perché una riflessione innescata dalle firme Cgil («Abbiamo fatto proprio bene a raccogliere le firme», dice Landini) abbia modificato le convinzioni renziane. No. Il punto - con non poca delusione di chi al merito tiene e, legittimamente, è convinto dell'utilità dei buoni lavoro - era disinnescare il referendum, quello sui voucher e poi, di conseguenza, rimasto solo e meno comprensibile, quello sugli appalti. Ai voucher tanto cari si rinuncia, quindi, per evitare che la consultazione potesse diventare un voto sull'intero Jobs act - così come il referendum costituzionale è diventato anche un voto su Renzi. Per evitare che la consultazione svelasse, così vicini alle urne nazionali, l'esistenza di un fronte largo a sinistra di Renzi, un fronte lasciato scoperto dal Pd, e questa volta non liquidabile come un'"accozzaglia". Una sinistra alla sua sinistra non deve esistere, invece. Va negata, smontata. Anche addossandogli la responsabilità dei voucher stessi, creatura, dice Renzi, del governo Prodi, quindi della sinistra dem, quindi degli scissionisti. Una bugia (fu Renzi ad alzare il limite, per dire, da 5 a 7mila euro), come gli replica subito Damiano: «Renzi ha detto che i voucher 'sono stati inventati dal Governo Prodi, con Damiano ministro del lavoro'. Si tratta di una affermazione falsa: sono stati introdotti nel 2003, come sanno tutti, dal Governo Berlusconi con la cosiddetta legge Biagi». «Io», continua Damiano, «da ministro del lavoro del Governo Prodi li ho solo "attivati" nel 2007 per la vendemmia, ad utilizzo esclusivo di studenti e pensionati. Nel 2008 infatti furono venduti 500 mila voucher ed emerse lavoro nero». Insomma: «è con i governi successivi che si arriva a 134 milioni di tagliandi, nel 2016». «Noi, anzi, al tempo stesso eliminammo il lavoro a chiamata, successivamente reintrodotto dal Governo Berlusconi: è non mi pare che il Governo Renzi abbia proposto di cancellare il Job on call come fece Prodi». Anzi. Jobs on call. È proprio qui che si potrebbe nascondere l'ulteriore fregatura dell'abrogazione: perché in Parlamento, ai malumori degli onorevoli più liberisti, sta arrivando una promessa per loro rassicurante. Tolti i voucher, si penserà a un modo per rendere il contratto a chiamata molto più leggero (ancora più leggero), puntando al modello dei mini job tedeschi.

«Siamo contrari all’abolizione dei voucher», diceva Matteo Renzi non troppo tempo fa, nel maggio 2016, rispondendo a un’interrogazione alla Camera. Argomentava così la sua certezza, l’allora presidente: «I percettori di voucher oscillano tra 1,9% e 2,7% della forza lavoro, in larga parte turismo e commercio», «è emersione del nero», «se ci sono eccessi siamo pronti a discuterne».

Oggi, evidentemente, deve aver cambiato idea, anche se non lo dice e anzi si noterà che a palazzo Chigi non c’è più lui e che non è neanche più segretario del Pd: insomma, si dirà che non è sua responsabilità, l’ennesima giravolta. Perché invece oggi i voucher – i buoni lavoro da dieci euro lordi il cui uso è esploso – vengono aboliti, integralmente, come chiede il quesito referendario della Cgil, rinunciando persino alla proposta di Cesare Damiano, il presidente della commissione lavoro della Camera che suggeriva di tornare più o meno a come lui, da ministro, aveva applicatolo lo strumento comunque voluto dal forzista Maurizio Sacconi. I voucher, dice ragionevole Damiano – e per la Cgil sarebbe già stata una vittoria, una soluzione forse persino più corretta della diretta abrogazione – sarebbero rimasti per le famiglie, per pagare baby sitter & co e solo per alcuni lavori stagionali, come la vendemmia, e destinati a studenti o pensionati.

Ma si abolisce, dicevamo, (quelli già venduti si potranno spendere fino al 31 dicembre) ed è una buona notizia (e prova ne sia i tanti, da Confindustria in giù, che protestano: “Un passo indietro di vent’anni”, titola il Sole). Ma siccome nessuno, né Renzi né Poletti né un big del Pd, ha contestualmente preso la parola per chiedere scusa e dire “ci siamo sbagliati, per anni abbiamo difeso quello che, in un Paese che già ha decime di contratti compreso uno sul lavoro occasionale, è uno strumento di precarietà”, la buona notizia ha un lato meno buono.

Perché l’abrogazione, votata dalla commissione lavoro sotto forma di emendamento al testo base di riforma e poi fatta propria dal governo che procede rapidamente per decreto, è evidente, non è arrivata per valutazioni di merito, perché una riflessione innescata dalle firme Cgil («Abbiamo fatto proprio bene a raccogliere le firme», dice Landini) abbia modificato le convinzioni renziane. No. Il punto – con non poca delusione di chi al merito tiene e, legittimamente, è convinto dell’utilità dei buoni lavoro – era disinnescare il referendum, quello sui voucher e poi, di conseguenza, rimasto solo e meno comprensibile, quello sugli appalti.

Ai voucher tanto cari si rinuncia, quindi, per evitare che la consultazione potesse diventare un voto sull’intero Jobs act – così come il referendum costituzionale è diventato anche un voto su Renzi. Per evitare che la consultazione svelasse, così vicini alle urne nazionali, l’esistenza di un fronte largo a sinistra di Renzi, un fronte lasciato scoperto dal Pd, e questa volta non liquidabile come un'”accozzaglia”. Una sinistra alla sua sinistra non deve esistere, invece. Va negata, smontata. Anche addossandogli la responsabilità dei voucher stessi, creatura, dice Renzi, del governo Prodi, quindi della sinistra dem, quindi degli scissionisti. Una bugia (fu Renzi ad alzare il limite, per dire, da 5 a 7mila euro), come gli replica subito Damiano: «Renzi ha detto che i voucher ‘sono stati inventati dal Governo Prodi, con Damiano ministro del lavoro’. Si tratta di una affermazione falsa: sono stati introdotti nel 2003, come sanno tutti, dal Governo Berlusconi con la cosiddetta legge Biagi».
«Io», continua Damiano, «da ministro del lavoro del Governo Prodi li ho solo “attivati” nel 2007 per la vendemmia, ad utilizzo esclusivo di studenti e pensionati. Nel 2008 infatti furono venduti 500 mila voucher ed emerse lavoro nero». Insomma: «è con i governi successivi che si arriva a 134 milioni di tagliandi, nel 2016». «Noi, anzi, al tempo stesso eliminammo il lavoro a chiamata, successivamente reintrodotto dal Governo Berlusconi: è non mi pare che il Governo Renzi abbia proposto di cancellare il Job on call come fece Prodi».

Anzi. Jobs on call. È proprio qui che si potrebbe nascondere l’ulteriore fregatura dell’abrogazione: perché in Parlamento, ai malumori degli onorevoli più liberisti, sta arrivando una promessa per loro rassicurante. Tolti i voucher, si penserà a un modo per rendere il contratto a chiamata molto più leggero (ancora più leggero), puntando al modello dei mini job tedeschi.

Sono nato a Roma, il 23 febbraio 1988. Vorrei vivere in Umbria, ma temo dovrò attendere la pensione. Nell'attesa mi sposto in bicicletta e indosso prevalentemente cravatte cucite da me. Per lavoro scrivo, soprattutto di politica (all'inizio inizio per il Riformista e gli Altri, poi per Pubblico, infine per l'Espresso e per Left) e quando capita di cultura. Ho anche fatto un po' di radio e di televisione. Per Castelvecchi ho scritto un libro, con il collega Matteo Marchetti, su Enrico Letta, lo zio Gianni e le larghe intese (anzi, "Le potenti intese", come avevamo azzardato nel titolo): per questo lavoro non siamo mai stati pagati, nonostante il contratto dicesse il contrario.