«Stress, carichi emotivi e gestione contorta». Tre agenti denunciano a Left come si lavora dentro il carcere di Bologna. Storia di una polizia penitenziaria stretta nella morsa del burnout che, negli ultimi dieci anni, solo in Italia ha prodotto più di cento suicidi

È entrato in cucina mentre suo fratello preparava il caffè e si è sparato un colpo alla testa con la pistola di ordinanza. I suoi genitori sono rimasti seduti sul divano. Era sposato, aveva dei figli ed era un agente di polizia penitenziaria. Quello di Falciano del Massico, nel Casertano, è l’ultimo dei suicidi che contiamo mentre andiamo in stampa. L’ennesimo. Sono più di cento negli ultimi dieci anni, dicono i rapporti. Ma che siano più di cento in dieci anni lo dicono già da almeno un anno. Qualcuno lo chiama «effetto carcere», qualcun altro «sindrome del burnout». Il malessere tra le mura delle patrie galere è in aumento – e non solo per i detenuti dei quali ci siamo sempre occupati sulle pagine di Left ma – anche tra gli agenti. Soprattutto tra quelli che lavorano “dentro” gli istituti, a contatto con i detenuti.

Sorveglianti ed educatori. Secondini e coinquilini. Perché gli agenti di polizia penitenziaria devono sì mantenere l’ordine e la sicurezza, ma devono anche relazionarsi con degli esseri umani, e con i loro carichi emotivi. Il motto della polizia penitenziaria, del resto, da un pezzo non è più «vigilando redimere», ma «garantire la speranza è il nostro compito», quasi una missione, alla quale gli agenti spesso sono impreparati. Schiacciati tra l’impatto emotivo e la forma mentis di stampo militare che rimane nella memoria, si rischia il mix esplosivo, soprattutto se il tutto è condito dall’assenza di formazione specifica e riconoscimenti da parte di superiori e autorità.

136, 361 e 631. Sono i tre agenti di polizia penitenziaria che abbiamo incontrato a Bologna. Ci hanno raccontato come trascorrono le loro giornate di lavoro, a cominciare dal gabbiotto d’ingresso. Si devono presentare pronunciando il loro codice. «Siamo diventati dei numeri anche noi», lamentano i tre. «Qualcuno di noi ancora si ostina a presentarsi con il proprio nome, ma non serve a nulla. Siamo codici». Li chiameremo così anche noi, con tre numeri identificativi nemmeno reali. Lo faremo per proteggerli, nonostante loro non ce l’abbiano chiesto.

Il racconto e le denunce dei tre agenti sul numero di Left in edicola

 

SOMMARIO ACQUISTA