Eccoci al 21 marzo. Ancora. A leggere i 950 nomi delle vittime innocenti di mafia per una giornata che è diventata legge e che tutti gli anni prova a mettere a fuoco i numeri spaventosi di una guerra che sembra non dare mai segni di cedimento. E anche quest'anno la giornata si apre con le ingiurie (questa volta scritte sui muri). Questa volta contro Don Ciotti: "Più lavoro meno sbirri" ricorda quella vecchia frase "Andreotti dava lavoro, Caselli no!" scritta sull'autostrada Palermo-Catania nel 1995. Nel profluvio di parole di oggi, per una mia deviazione verso il recupero di ciò che è già stato detto, c'è un discorso intenso che vale la pena rileggere, è di Gian Carlo Caselli e parte proprio dal senso del recitare il "rosario" dei morti: «Recitarne l’elenco nelle cerimonie pubbliche non deve diventare un inganno. Uno schermo dietro il quale nascondere le nostre responsabilità. Quelle vittime sono morte anche perché noi – noi Stato, noi cittadini, noi Chiesa – non siamo stati fino in fondo quel che avremmo dovuto essere. Non siamo stati abbastanza vivi». [...] «Noi non abbiamo vigilato – prosegue Caselli – non ci siamo scandalizzati dell’ingiustizia: nella professione, nella vita civile, politica, religiosa. I morti hanno visto il loro prossimo: la sopraffazione, la ricchezza facile e ingiusta, l’illegalità, la compravendita della democrazia, lo scialo di morte e violenza, il mercato delle istituzioni, i giovani abbandonati per strada, facile preda del mondo illegale. Questo hanno visto e per questo sono morti». [...] «Quante volte, invece di osservare il nostro prossimo, ci siamo accontentati dell’ipocrisia civile, abbiamo subìto e praticato, invece di spezzarlo, il giogo delle mediazioni e degli accomodamenti? La criminalità organizzata costringe il nostro popolo a sopportare infamie tremende e un doloroso turbamento sociale e morale. Occorre da parte di tutti uno scatto di responsabilità. Superando un agire troppo vecchio o timoroso, talora persino connivente, e trovando il coraggio di rinnovare. Ma guai se le commemorazioni, invece di essere una piattaforma di rilancio dell’impegno comune, diventassero un comodo lavacro delle coscienze, che faccia dimenticare le responsabilità di chi – ieri come oggi – lascia soli coloro che si impegnano». Ecco. L'augurio questo 21 marzo è di essere vivi. Vivissimi. Buon martedì.

Eccoci al 21 marzo. Ancora. A leggere i 950 nomi delle vittime innocenti di mafia per una giornata che è diventata legge e che tutti gli anni prova a mettere a fuoco i numeri spaventosi di una guerra che sembra non dare mai segni di cedimento. E anche quest’anno la giornata si apre con le ingiurie (questa volta scritte sui muri). Questa volta contro Don Ciotti: “Più lavoro meno sbirri” ricorda quella vecchia frase “Andreotti dava lavoro, Caselli no!” scritta sull’autostrada Palermo-Catania nel 1995.

Nel profluvio di parole di oggi, per una mia deviazione verso il recupero di ciò che è già stato detto, c’è un discorso intenso che vale la pena rileggere, è di Gian Carlo Caselli e parte proprio dal senso del recitare il “rosario” dei morti:

«Recitarne l’elenco nelle cerimonie pubbliche non deve diventare un inganno. Uno schermo dietro il quale nascondere le nostre responsabilità. Quelle vittime sono morte anche perché noi – noi Stato, noi cittadini, noi Chiesa – non siamo stati fino in fondo quel che avremmo dovuto essere. Non siamo stati abbastanza vivi». […] «Noi non abbiamo vigilato – prosegue Caselli – non ci siamo scandalizzati dell’ingiustizia: nella professione, nella vita civile, politica, religiosa. I morti hanno visto il loro prossimo: la sopraffazione, la ricchezza facile e ingiusta, l’illegalità, la compravendita della democrazia, lo scialo di morte e violenza, il mercato delle istituzioni, i giovani abbandonati per strada, facile preda del mondo illegale. Questo hanno visto e per questo sono morti». […] «Quante volte, invece di osservare il nostro prossimo, ci siamo accontentati dell’ipocrisia civile, abbiamo subìto e praticato, invece di spezzarlo, il giogo delle mediazioni e degli accomodamenti? La criminalità organizzata costringe il nostro popolo a sopportare infamie tremende e un doloroso turbamento sociale e morale. Occorre da parte di tutti uno scatto di responsabilità. Superando un agire troppo vecchio o timoroso, talora persino connivente, e trovando il coraggio di rinnovare. Ma guai se le commemorazioni, invece di essere una piattaforma di rilancio dell’impegno comune, diventassero un comodo lavacro delle coscienze, che faccia dimenticare le responsabilità di chi – ieri come oggi – lascia soli coloro che si impegnano».

Ecco. L’augurio questo 21 marzo è di essere vivi. Vivissimi.

Buon martedì.