Niente da fare, è recidivo. Il ministro (chissà poi perché) del lavoro (chissà poi quale) Giuliano Poletti infila l’ennesima offensiva scemenza nei confronti dei giovani (dopo quella dei giovani emigrati all’estero in cui ci disse che “alcuni è meglio non averli tra i piedi”) e durante un incontro con gli studenti dell’istituto Manfredi Tanari di Bologna dice: «Il rapporto di lavoro è prima di tutto un rapporto di fiducia. È per questo che lo si trova di più giocando a calcetto che mandando in giro dei curriculum.»
Ha ragione Poletti: il fatto che sia ministro dimostra come l’appartenenza da sempre qui da noi funziona più del merito. E se dobbiamo continuare a vergognarci per le bestialità proferite da questi cialtroni diventati classe dirigente è proprio perché il disfacimento etico e morale perpetrato negli anni oggi è scivolato talmente in basso da poter essere addirittura esibito.
Il Paese che si scambia favori al circolino del tennis, alle cene di gala o appunto al campo di calcetto è quello che si è curato più della preservazione delle sue oligarchie piuttosto che della distribuzione dei diritti e delle opportunità. Così accade che nello stesso giorno in cui si viene sapere che a Treviso a una donna incinta viene chiesto di pagare il proprio sostituto per non essere licenziata il ministro che dovrebbe tutelarla riesce a farsi deridere con una frase del genere.
Ma il dubbio, quello vero, è che Poletti sappia esattamente da che parte stare: nel lavoro (così come nella vita e ancor di più nella politica) si può stare con i forti o con i deboli. E Poletti (come già il governo Renzi) ha avuto centinaia di occasioni per chiarire da che parte sta. Basta guardare il curriculum del ministro, qui: se smette di leccare i forti, se smette di giocarci a calcetto, secondo voi come potrebbe finirci ministro, uno così.
Buon martedì.