Racconta il suo ritorno in Libia, dopo trent’anni di esilio, l’atteso nuovo libro di Hisham Matar, segnalato come una delle uscite più importanti del 2016 dalle maggiori testate internazionali e vincitore del PEN/Jean Stein Book Award. Il 21 marzo è uscito per Einaudi nella bella traduzione di Anna Nadotti, (che lo presenta al Festival Incroci di civiltà il primo aprile). Dopo Nessuno al mondo (2006) e Anatomia di una scomparsa, (2011) ne Il ritorno Matar ripercorre la drammatica storia della Libia attraverso una toccante “inchiesta” sulla sparizione di suo padre, Jaballa Matar, che lottò contro l’occupazione italiana e poi contro Gheddafi.
Diplomatico di lungo corso (sotto il re Idris e ancora sotto il Raìs) decise di passare direttamente all’azione, organizzando e finanziando l’opposizione, con i soldi guadagnati come imprenditore.
Quando Hisham Matar frequentava l’università a Londra, Jaballa fu rapito dai servizi segreti libici. Fu rinchiuso nelle famigerate galere di Abu Salim. Dal 1996 non se ne hanno più notizie.
Attivista per i diritti umani oltre che scrittore, Hisham Matar è stato ospite di Libri Come a Roma, mentre i giornali riportavano notizie sui negoziati fra Italia e Libia, che in cambio di elicotteri e navi si offre di bloccare il traffico dei migranti.
«La situazione dei migranti è scioccante, disumana, è vergognoso che non si cerchi una soluzione», commenta Hisham Matar. Ma poi aggiunge: «L’Italia parla con la Libia, si legge sui giornali. Bene, ma con quale governo libico? Oggi la situazione è quanto mai complessa. In Libia il problema cardine è la costruzione dello Stato. Bisogna cercare di far funzionare uno Stato che non sta funzionando. Molti Paesi hanno un interesse a mantenere questo stato di cose.
Accadeva anche all’epoca del dittatore Gheddafi?
Molti governi occidentali avevano rapporto con lui, fiutando la possibilità di fare tanti soldi. Dopo la rivoluzione del 2011 appoggiare una parte o l’altra permetteva di spostare gli equilibri, agendo dall’estero. E ancora oggi la Libia prende l’impegno di costruire muri, come barriera sull’Africa, contro i migranti.
In Italia Gheddafi è stato accolto da Berlusconi, ma anche da Massimo D’Alema. Ne Il ritorno viene evocata anche la visita ufficiale di Tony Blair al leader libico nel 2004…
Le responsabilità dell’Occidente sono molto gravi. Fin dalle imprese coloniali, che hanno lasciato segni profondi.
Mussolini veniva visto come «un fascista pagliaccesco» in Europa, lei scrive, ricordando che dietro quella maschera buffonesca c’era ben altro. In Italia manca ancora una consapevolezza diffusa del genocidio di cui si rese responsabile in Libia?
Ho una lunga consuetudine con l’Italia, i miei genitori avevano molti amici italiani. Io stesso ne ho moltissimi. Qui mi sento a casa. Forse anche per questo mi ha sempre sorpreso molto che persone, anche colte, non abbiano idea del genocidio in Libia. Né i film italiani ambientati in quegli anni, né i romanzi dell’epoca parlano delle colonie italiane. Qualche riferimento superficiale (e auto apologetico ndr) alla Libia o all’Eritrea si trova solo nei romanzi di genere, più commerciali. È davvero “curioso” questo silenzio. Il mio incoraggiamento agli italiani ad interrogarsi su quella vicenda non è per un giudizio morale. Certo abbiamo il dovere di informarci sull’accaduto, ma penso anche che potrebbero trovare interessante indagare i motivi per cui l’Italia andò in Libia e poi se ne andò. Dopo essere stati sconfitti dai britannici, tuttavia molti italiani rimasero, diventando libanesi dopo generazioni. Gheddafi li cacciò nel 1969. È una storia molto dura, interessante e complessa.
Ne il ritorno la storia della Libia s’intreccia fortemente con la sua vicenda biografica. Questo è il suo libro più personale?
I libri di un autore sono il suo volto. Uno scrittore non decide coscientemente quale libro scrivere. Puoi decidere di non scriverlo, al più. Ma c’è dell’altro. I libri che scrivi ti invitano ad andare in una certa direzione, ti portano verso altri libri. Prendiamo il mio caso, come esempio. Mi ha sorpreso vedere che il mio primo libro nascostamente evocava questo nuovo. Diversamente dai primi due libri, Il ritorno non è un romanzo, non c’è fiction, in questo sì è più personale.
Ma non è neanche una autobiografia in senso tradizionale. È scritto con una prosa musicale e poetica. Una volta lei ha detto che da bambino sognava di diventare direttore d’orchestra, poeta oppure, architetto. Possiamo dire che c’è riuscito con Il ritorno?
È che non riesco a capire come si possa scrivere un libro senza almeno provare a farne letteratura. Scrivere non coincide con la mera trasmissione di informazioni. Qualcosa accade quando cerchi di afferrare i diversi registri del silenzio, per dire cose per le quali non si sono parole. Come riuscire a dire alle persone che amiamo di più, cosa proviamo per loro? Come posso esprimere alla mia compagna tutto ciò che sento per lei? È impossibile. Non bastano le parole più belle. Qualcosa di importante però viene detto in silenzio. Questa è la sfida della letteratura poiché siamo tutti esseri umani. Dunque come scrivere? Come riuscire a creare quello spazio silenzioso che i lettori possano riempire? Ciò che mi sorprende della letteratura è che non c’è niente che sia interamente nuovo, eppure ci tocca profondamente. Nei libri metto in moto emozioni che conosci, le uso per tratteggiare storie e circostanze che tu lettore non hai mai sperimentato personalmente, ma…
C’è qualcosa di universale nella letteratura, qualcosa di profondamente umano?
Assolutamente sì. C’è un passo molto bello di Appreciation in cui Joseph Conrad scrive: «Ci sono momenti in cui il nostro essere, come se si fosse liberato da un velo scuro, arriva a una sensibilità così raffinata da rendere il silenzio più eloquente delle parole».
Nei passaggi più drammatici de Il ritorno s’incontrano dipinti. Mentre suo padre sparisce lei sta guardando L’esecuzione di Massimiliano I di Manet. Mentre fa ricerche per scoprire la verità sulla morte di Jaballa, a Roma rimane colpito dal San Lorenzo sulla graticola di Tiziano. Il linguaggio silenzioso delle immagini è una fonte di ispirazione per lei?
Il lavoro della letteratura da millenni è proprio quello di cercare di tradurre questo silenzio. Il motivo per cui io guardo i quadri in modo così strano, andando in un museo magari per vedere una sola opera, restando lì davanti per decine di minuti, è perché ancora non so come guardare i quadri. Ti sembra sempre che i dipinti siano nudi davanti a te, che siamo accessibili, ma non è così. Accade anche con i libri. Partiamo dall’inizio, li leggiamo dalla prima farse all’ultima. Ma basta questo per poter dire di aver letto un libro?
I dipinti di Caravaggio, dietro la figura, lasciano intravedere un’immagine latente, un senso più profondo. È anche questo il motivo per cui si torna più e più volte a vederli scoprendo sempre qualcosa di nuovo?
Con il nero vivo dietro le figure Caravaggio ci comunica qualcosa di più profondo. Qualcosa di simile, un’immagine nascosta, si può cogliere anche nella musica, in certe sinfonie.
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Intervista pubblicata su Left del 25 marzo 2017