L'entusiasmo per i dati Ocse-Pisa che celebrano la scuola italiana come tutela dei più disagiati è mal riposto. La ricerca Piaac dice che gli stessi studenti 12 anni dopo finiscono in un buco nero. Per questo il Governo dovrebbe investire di più nella formazione degli adulti e nella cultura in generale

Nei giorni scorsi grandi titoli di giornali – dopo un bombardamento continuo di critiche – hanno salutato improvvisamente la scuola italiana come la più “inclusiva” d’Europa, un luogo di formazione dove le diseguaglianze sociali vengono abbattute. Anche la ministra dell’Istruzione ha celebrato i dati Ocse, trascurando di menzionare una parte della ricerca, quella Piaac da cui si evince che gli stessi studenti che a 15 anni avevano dimostrato buoni risultati pur provenendo da famiglie disagiate, 12 anni dopo finiscono nel gorgo dell’analfabetismo di ritorno o comunque in un gap formativo. Ospitiamo l’analisi di Bruno Moretto, segretario del Comitato bolognese scuola e costituzione.

Gli articoli comparsi nella maggior parte dei quotidiani e i servizi televisivi hanno montato una bufala, accreditando il fatto che una ricerca dell’Ocse avrebbe decretato il primato della scuola italiana in Europa sul terreno dell’inclusione. Sul tema sono intervenuti l’ex premier Renzi, la neo ministra Fedeli e Francesca Puglisi (responsabile scuola del Pd ndr) cercando di accreditarsi il merito di questi risultati.
Prima di tutto bisogna avere chiaro che la ricerca in questione confronta i risultati degli studenti quindicenni sottoposti ai test Pisa in comprensione del testo, matematica e scienze nel 2000 con quelli ottenuti dalla stessa coorte di individui nel 2012 (test Piaac) ovvero 12 anni dopo, quando questi dovrebbero essere inseriti in un’attività lavorativa. La ricerca ha quindi lo scopo di valutare le tendenze di lungo periodo dei vari Paesi nel campo delle competenze ritenute strategiche per lo sviluppo economico e scientifico. La ricerca studia in particolare questi esiti in base alle condizioni socio economiche delle famiglie di riferimento. Lo studio mostra che nella maggioranza dei Paesi l’intervento della scuola compensa fino ai 15 anni lo svantaggio derivante dalla provenienza famigliare, ma che successivamente, anche a causa della maggiore eterogeneità di esperienze e possibilità alla fine della scuola dell’obbligo (formazione professionale, università, entrata nel mondo del lavoro) si osserva un allargamento della forbice nelle competenze tra classi sociali. Chi perde sono più spesso gli studenti non altamente dotati accademicamente che vengono da famiglie svantaggiate.
Questo grafico spiega il contenuto della ricerca:

Per quanto riguarda l’Italia i rapporti del centro di ricerca Ocse Pisa hanno evidenziato fin dal 2000 che la scuola italiana dell’obbligo ha una vocazione sociale che la porta ad essere più inclusiva di quelle di altri Paesi. Anche il rapporto 2015 conferma questa tendenza storica che deriva dalla sua impostazione originaria di una Istituzione avente il compito di dare attuazione all’art. 3 della nostra Costituzione: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana.”

I dati Ocse 2015 evidenziano il rapporto di probabilità che ha uno studente 15 enne di condizioni socioeconomiche basse di ottenere risultati scarsi rispetto a uno di condizioni economiche alte. L’Italia si colloca leggermente sotto la media.
Ma come già detto i problemi sorgono principalmente dopo i 15 anni visto che dallo studio emerge che fra i 27 enni l’incidenza delle condizioni socio economiche sulle competenze è decisamente sopra la media.
D’altra parte l’Italia nel 2016 risulta il 16% di studenti ha lasciato gli studi mentre la media europea è pari al 10%. La percentuale di diplomati nella fascia di età 25-34 è del 71% contro la media Ocse dell’82. E siamo il fanalino di coda anche per numero di laureati.
In conclusione bisognerebbe occuparsi di più degli anni di transizione tra la fine della scuola dell’obbligo e l’età dei circa 30 anni che sono importantissimi per sviluppare conoscenze. Sarebbe pertanto necessario che il governo si occupasse seriamente di garantire l’accesso ai corsi universitari dei più svantaggiati. Al contrario, negli ultimi anni le borse di studio ai bisognosi e meritevoli sono state ridotte in modo sensibile così come è calato il numero degli iscritti all’Università.
E nessun intervento è stato prodotto per incentivare le aziende a proseguire l’attività di formazione anche culturale dei propri dipendenti. L’ultima riforma ha poi resa obbligatoria la cosiddetta alternanza scuola lavoro per tutti gli studenti del triennio superiore scaricando l’incombenza sulle scuole senza preoccuparsi di garantire agli studenti un inserimento realmente formativo. In tal modo migliaia di studenti sono stati utilizzati dalla aziende per sostituire il personale in lavori di bassa qualificazione.
Invece di intervenire nel post scuola tutti i governi degli ultimi anni hanno puntato sulla scuola producendo riforme che hanno avuto come comun denominatore la riduzione delle risorse pubbliche investite proprio nei segmenti della scuola di base che sono stati decisivi per garantire l’uguaglianza delle opportunità. Basti ricordare l’introduzione del sistema integrato pubblico privato nella scuola dell’infanzia che ha prodotto la riduzione del numero di bambine e bambini accedenti a questo grado scolastico, che anche l’ultima riforma in atto tende a ridurre al rango di servizio a domanda.
E la riduzione del tempo pieno nella scuola elementare e media a partire dalla riforma Gelmini del 2008 che continua ad essere negato a migliaia di alunni, senza alcuna inversione di tendenza. L’ultima riforma cosiddetta Buona scuola ha avuto come scopo primario l’inserimento della competizione, della meritocrazia, della valutazione, in una struttura che si fonda sulla cooperazione, andando pertanto in controtendenza rispetto alla funzione egualitaria da cui è nata la scuola pubblica democratica.
Non a caso nel famoso rapporto “La buona scuola” del settembre 2014 non compare neppure una volta la parola “uguaglianza”. Una riforma della scuola che ha preso a modello quello tedesco che è molto discriminante socialmente come si evince da tutti i dati, ma che poi è in grado di recuperare il gap grazie alla funzione formatrice che si svolge ad esempio nelle aziende.
In conclusione si può affermare che i governi degli ultimi 20 anni si sono occupati troppo di scuola e secondo una visione aziendalistica e molto poco del post scuola e ogni intervento è stato dettato non dalla necessità di garantire a tutti l’esercizio dei principi di uguaglianza e solidarietà a fondamento della nostra Costituzione e della possibilità di uno sviluppo del nostro paese nella società della conoscenza, ma dall’esigenza di ridurre i costi dell’istruzione.