Al Senato la maggioranza balla (da sola) sull'elezione del presidente della commissione Affari costituzionali. L'incidente è minimo, ma politicamente ricco di significati. Ecco quali

Prima serve fare una breve cronaca per chi si fosse perso l’episodio o per chi, giustamente, non così addentro ai regolamenti parlamentari non avesse ben compreso il fatto, leggendo le sommarie ricostruzioni dei giornali, che si sono giustamente concentrati subito sulle reazioni politiche.

Lo hanno fatto, i giornali e gli editorialisti, perché in effetti quello che è accaduto ieri al Senato sarebbe stato un fatto più che marginale, in un altro momento. È successo questo: la presidente della commissione Affari costituzionale del Senato, Anna Finocchiaro, “nonna” se Boschi ne era la “madre” della riforma costituzionale, è stata come noto promossa, visto il successo, al governo, diventata ministro per i Rapporti col parlamento. Serviva dunque sostituirla, tenendo presente che il naufragar della riforma e dell’Italicum danno alla nomina un certo peso nel cammino della nuova legge elettorale (se ci sarà). Il Pd era convinto che non ci sarebbero stati problemi nell’eleggere Sergio Pagliari, uno dei suoi, renzianissimo. Che è stato però battuto, 16 a 11, in favore di Salvatore Torrisi, un alfaniano che ha fatto il reggente in questi primi mesi del governo Gentiloni. È sempre un membro della maggioranza e quindi non sarebbe nulla di grave.

Ma l’elezione – resa possibile dalla convergenza di opposizioni, alfaniani e bersaniani – è invece un caso politico. Perché se è vero che i bersaniani hanno così avuto modo di far notare il loro peso – senza di loro non ci sarebbe governo, salvo che il Pd non torni da Berlusconi – è vero anche che Renzi e i suoi hanno subito gridato al complotto, alla crisi, e messo in dubbio che Gentiloni possa così durare molto, chiedendo addirittura in un primo momento l’intervento del Colle – che generalmente non si disturba per cose così e per fatti che riguardano l’autonomia parlamentare.

Per Renzi l’occasione è insomma stata ghiotta – tant’è che c’è chi sostiene l’abbia ricercata – perché gli permette di creare un clima teso nei tempi giusti per preparare il terreno per eventuali accelerazioni dopo il voto delle primarie. «Punta al voto a settembre» dice Emiliano, che abbiamo intervistato la settimana scorsa, mentre questa vi proponiamo – in edicola da sabato – Andrea Orlando.

Una domanda, allora. Il Pd tra primarie, liti interne e referendum è veramente elemento stabilizzante della politica e della vita parlamentare? Non diamo noi la risposta, questa volta. (l’abbiamo suggerita con tante copertine dedicate alle contraddizioni di un partito omnibus) Suggeriamo però di chiedere un parere a Enrico Letta.

Sono nato a Roma, il 23 febbraio 1988. Vorrei vivere in Umbria, ma temo dovrò attendere la pensione. Nell'attesa mi sposto in bicicletta e indosso prevalentemente cravatte cucite da me. Per lavoro scrivo, soprattutto di politica (all'inizio inizio per il Riformista e gli Altri, poi per Pubblico, infine per l'Espresso e per Left) e quando capita di cultura. Ho anche fatto un po' di radio e di televisione. Per Castelvecchi ho scritto un libro, con il collega Matteo Marchetti, su Enrico Letta, lo zio Gianni e le larghe intese (anzi, "Le potenti intese", come avevamo azzardato nel titolo): per questo lavoro non siamo mai stati pagati, nonostante il contratto dicesse il contrario.