Göteborg- Sotto il sole racchiuso dalle strisce, rossa e verde, di una sbiadita bandiera del Kurdistan, Abdullah stringe una tazza di tè ormai vuota mentre scruta il flusso incessante di passanti che attraversa la stretta via che congiunge il padiglione dei vestiti a quello degli alimenti. Il fratello Mahmood tiene sott’occhio una coppia di somali che da cinque minuti fruga nella cesta dei caricatori provando a incastrarne, a turno, gli spinotti nell’entrata di un vecchio cellulare Nokia. Due giorni a settimana i due fratelli, curdo-iracheni di Dohuk, vendono accessori elettronici al mercato di Kviberg, un complesso di casermoni costruiti a fine Ottocento per ospitare i reggimenti d’artiglieria di Göteborg. Ogni weekend si trasforma in un suq tentacolare, dove rifugiati e migranti storici possono trovare a buon mercato di tutto, da rasoi di seconda mano ai sottaceti libanesi, dagli hijab multicolori a vecchi Commodore, rari anche tra i collezionisti. Qui tutti i sabati e le domeniche migliaia di persone tastano la frutta, comprano scarpe, si tagliano i capelli e compiono tutti quei gesti che aiutano nel tentativo di ricostruire, da esiliati, un senso di normalità.

Abdullah e Mahmood sono molto tesi, qualche settimana fa la polizia ha portato via dodici persone con un’irruzione spettacolare tra le bancarelle. Già, perché tra i banchi di Kviberg ci sono anche loro: i papperslösa, i senza documenti, quelli che la Svezia del politicamente corretto non chiama “clandestini” ma che di fatto educatamente espelle. Sono gli ultimi della società, in fuga dalla polizia ma con la certezza che qualsiasi prospettiva è più allettante rispetto all’essere mandati a morire nei propri Paesi di origine. La coppia somala si allontana, non ha trovato il caricatore che cercava. Abdullah poggia la tazza e poi guarda l’orologio. Tra circa mezz’ora si smonta. Anche oggi, forse, si potrà tirare un respiro di sollievo.

Su Left in edicola il reportage di Joshua Evangelista e un racconto su Malmoe, città che i media di destra descrivono come una specie di Gomorra islamista.

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Il reportage da Goteborg continua su Left in edicola

 

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Göteborg- Sotto il sole racchiuso dalle strisce, rossa e verde, di una sbiadita bandiera del Kurdistan, Abdullah stringe una tazza di tè ormai vuota mentre scruta il flusso incessante di passanti che attraversa la stretta via che congiunge il padiglione dei vestiti a quello degli alimenti. Il fratello Mahmood tiene sott’occhio una coppia di somali che da cinque minuti fruga nella cesta dei caricatori provando a incastrarne, a turno, gli spinotti nell’entrata di un vecchio cellulare Nokia. Due giorni a settimana i due fratelli, curdo-iracheni di Dohuk, vendono accessori elettronici al mercato di Kviberg, un complesso di casermoni costruiti a fine Ottocento per ospitare i reggimenti d’artiglieria di Göteborg. Ogni weekend si trasforma in un suq tentacolare, dove rifugiati e migranti storici possono trovare a buon mercato di tutto, da rasoi di seconda mano ai sottaceti libanesi, dagli hijab multicolori a vecchi Commodore, rari anche tra i collezionisti. Qui tutti i sabati e le domeniche migliaia di persone tastano la frutta, comprano scarpe, si tagliano i capelli e compiono tutti quei gesti che aiutano nel tentativo di ricostruire, da esiliati, un senso di normalità.

Abdullah e Mahmood sono molto tesi, qualche settimana fa la polizia ha portato via dodici persone con un’irruzione spettacolare tra le bancarelle. Già, perché tra i banchi di Kviberg ci sono anche loro: i papperslösa, i senza documenti, quelli che la Svezia del politicamente corretto non chiama “clandestini” ma che di fatto educatamente espelle. Sono gli ultimi della società, in fuga dalla polizia ma con la certezza che qualsiasi prospettiva è più allettante rispetto all’essere mandati a morire nei propri Paesi di origine. La coppia somala si allontana, non ha trovato il caricatore che cercava. Abdullah poggia la tazza e poi guarda l’orologio. Tra circa mezz’ora si smonta. Anche oggi, forse, si potrà tirare un respiro di sollievo.

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