Domenica prossima la Turchia decide cosa vuole diventare. Se una specie di dittatura del presidente o continuare a essere quella democrazia imperfetta che è stata in questi anni, prima che il tentato colpo di Stato dello scorso anno non aprisse la strada alle purghe e alla repressione del dissenso da parte dell’apparato dello Stato che obbedisce agli ordini del presidente Erdogan. Che poi è il regista dell’operazione che prevede la riforma presidenziale della repubblica da sottoporre al plebiscito con il referendum del 16. In questi mesi lo Stato turco ha licenziato 130mila persone, da maestri e accademici a funzionari, da militari a autisti del trasporto pubblico. Risultato? Secondo il New York Times 1200 scuole, 50 ospedali e 15 università chiuse. E assunzione, al posto dei sospettati di essere vicini a Fetullah Gulen, il religioso esiliato negli Stati Uniti che Erdogan ha individuato come l’organizzatore del tentato golpe, con personale fedele alle organizzazioni islamiste vicine all’Akp, il partito del presidente.
Durante questi mesi anche la politica e la società curde sono state messe sotto pressione: bombe, città sotto assedio, rastrellamenti e arresto di tutti i leader dell’Hdp, che con Gulen non ha nulla a che vedere e che in questi anni è cresciuto fuori dalla comunità curda grazie alla sua visione moderna della questione nazionale.
L’interessante della vicenda e del voto di domenica in un Paese portato sull’orlo del precipizio da una serie di crisi in successione – il tentato golpe, la Siria e i suoi rifugiati, gli attentati islamisti, le tensioni con Russia, Iran e, a modo loro, con Stati Uniti ed Europa – è che l’esito del referendum non è affatto scontato. Gli ultimi quattro sondaggi danno tutti il Sì vincente ma mostrano un Paese molto diviso su una questione così delicata: il massimo di consensi raggiunti nei sondaggi dal Sì è infatti 53%, la media Reuters degli ultimi 9 sondaggi è 0,9%. Molto sotto il margine di errore. Molto quindi conteranno possibili brogli, incidenti, pressioni. E stiamo pur certi che ce ne saranno. Un risultato tanto è incerto è davvero strano se si pensa al livello di tensione diffuso nel Paese in questi mesi e anni. La tipica situazione in cui l’idea di uomo e potere forte può generare consensi.
Altro elemento di interesse è il fatto che diversi leader storici del partito di Erdogan, il più famoso è l’ex presidente Gul, il secondo l’ex premier Davutoglu, hanno evitato di pronunciarsi sul referendum o si sono schierati contro. Le spinte sono poi diverse: ci sono laici di destra che sono con Erdogan pur opponendosi al relativo smantellamento dello stato kemalista nato con Ataturk e religiosi moderati preoccupati dalla svolta reazionaria. Da qui a domenica, possiamo quasi esserne certi, assisteremo ad arresti, qualche attacco islamista e altri episodi che alzeranno la tensione.
La Turchia al voto, in gioco il futuro democratico?
Domenica prossima la Turchia decide cosa vuole diventare. Se una specie di dittatura del presidente o continuare a essere quella democrazia imperfetta che è stata in questi anni, prima che il tentato colpo di Stato dello scorso anno non aprisse la strada alle purghe e alla repressione del dissenso da parte dell'apparato dello Stato che obbedisce agli ordini del presidente Erdogan. Che poi è il regista dell'operazione che prevede la riforma presidenziale della repubblica da sottoporre al plebiscito con il referendum del 16. In questi mesi lo Stato turco ha licenziato 130mila persone, da maestri e accademici a funzionari, da militari a autisti del trasporto pubblico. Risultato? Secondo il New York Times 1200 scuole, 50 ospedali e 15 università chiuse. E assunzione, al posto dei sospettati di essere vicini a Fetullah Gulen, il religioso esiliato negli Stati Uniti che Erdogan ha individuato come l'organizzatore del tentato golpe, con personale fedele alle organizzazioni islamiste vicine all'Akp, il partito del presidente.
Durante questi mesi anche la politica e la società curde sono state messe sotto pressione: bombe, città sotto assedio, rastrellamenti e arresto di tutti i leader dell'Hdp, che con Gulen non ha nulla a che vedere e che in questi anni è cresciuto fuori dalla comunità curda grazie alla sua visione moderna della questione nazionale.
L'interessante della vicenda e del voto di domenica in un Paese portato sull'orlo del precipizio da una serie di crisi in successione - il tentato golpe, la Siria e i suoi rifugiati, gli attentati islamisti, le tensioni con Russia, Iran e, a modo loro, con Stati Uniti ed Europa - è che l'esito del referendum non è affatto scontato. Gli ultimi quattro sondaggi danno tutti il Sì vincente ma mostrano un Paese molto diviso su una questione così delicata: il massimo di consensi raggiunti nei sondaggi dal Sì è infatti 53%, la media Reuters degli ultimi 9 sondaggi è 0,9%. Molto sotto il margine di errore. Molto quindi conteranno possibili brogli, incidenti, pressioni. E stiamo pur certi che ce ne saranno. Un risultato tanto è incerto è davvero strano se si pensa al livello di tensione diffuso nel Paese in questi mesi e anni. La tipica situazione in cui l'idea di uomo e potere forte può generare consensi.
Altro elemento di interesse è il fatto che diversi leader storici del partito di Erdogan, il più famoso è l'ex presidente Gul, il secondo l'ex premier Davutoglu, hanno evitato di pronunciarsi sul referendum o si sono schierati contro. Le spinte sono poi diverse: ci sono laici di destra che sono con Erdogan pur opponendosi al relativo smantellamento dello stato kemalista nato con Ataturk e religiosi moderati preoccupati dalla svolta reazionaria. Da qui a domenica, possiamo quasi esserne certi, assisteremo ad arresti, qualche attacco islamista e altri episodi che alzeranno la tensione.