Dalla fine della scorsa settimana più di mille palestinesi detenuti nelle carceri israeliane hanno cominciato uno sciopero della fame. A promuoverlo è stato il leader di Fatah, in carcere da 15 anni, Marwan Barghouti – forse la figura politica più popolare tra i palestinesi. Lo stesso Barghouti è stato messo in isolamento dopo che un suo articolo è stato pubblicato dal New York Times e che, domenica, migliaia di persone hanno manifestato nei Territori. Nel testo il leader di Fatah spiega che lo sciopero è «la forma più pacifica di resistenza a nostra disposizione».
Il governo israeliano, per bocca del ministro della pubblica sicurezza Gilad Erdan, ha reso noto che non intende in nessun modo negoziare con i detenuti. Altri ministri hanno usato toni ancora più duri, il ministro dei Trasporti e dell’Intelligence Katz ha scritto su Twitter che la cosa migliore per figure come Barghouti è la pena di morte. Le loro richieste riguardano le condizioni di detenzione: abolizione della detenzione senza processo, abolizione dell’isolamento, più visite dei familiari, un telefono a pagamento in ogni sezione. In passato ci sono stati molti altri scioperi simili, ma mai tanti prigionieri vi avevano aderito. L’avvocato di Barghouti ha fatto sapere che l’organizzazione dello sciopero della fame va avanti da un anno. Neppure il rifiuto di trattare da parte del governo israeliano è una novità, ma in passato, quando le condizioni dei detenuti hanno preso a peggiorare e si è posto il problema dell’alimentazione forzata, dei negoziati ci sono stati. Rifiutare il cibo è vietato e, in teoria, i detenuti potrebbero essere alimentati a forza, ma la cosa genererebbe un aumento delle proteste nei Territori.
Ma a cosa è dovuto questo sciopero e perché adesso? La presidenza Trump e la volontà presunta da parte del genero Jared Kushner di restituire agli Stati Uniti un ruolo e rilanciare una qualche forma di processo di pace sono una prima spiegazione. Da mesi, dopo la richiesta di riconoscimento dello Stato palestinese all’Onu fatta dal presidente Abbas, la leadership dell’Anp non sembra avere una strategia da opporre all’intransigenza e apparente disinteresse di Netanyahu. Barghouti sembra voler intervenire in questa assenza di leadership che è anche frutto della lunga e lenta lotta per la successione al presidente.
Ma quanto peserà questo sciopero? Lo vedremo nelle prossime settimane, quando le condizioni dei detenuti peggioreranno e la pressione delle manifestazioni crescerà di conseguenza. Un grande tema, oggi, per i palestinesi è il disordine regionale del quale si trovano a essere vittime. Se per decenni la loro vicenda è stata centrale per la politica mediorientale – nel bene e nel male, con governi che hanno usato la loro causa per cercare consenso e indicare un nemico (Israele, gli Usa) – oggi, tra Siria, Yemen e tensioni crescenti altrove, l’impatto che le proteste potranno avere è minore che in passato. Al contempo, la tensione è già talmente alta in Medio Oriente che una nuova sollevazione palestinese dovrebbe preoccupare tutti e far riflettere il governo di Israele sulla necessità di lavorare a qualcosa che non sia il trascinarsi dello status quo a cui si aggiunge la provocazione dei nuovi insediamenti.