«Noi siamo in competizione con il sonno» dice il capo di Netflix. Spiegando, senza volerlo, perché quella contro una società che lavora e consuma H24 è la battaglia dei nostri tempi

«Noi siamo in competizione con il sonno» – leggo su il Post – ha detto Reed Hastings, il Ceo di Netflix. È una battuta, capisco, ma a me non fa ridere. Soprattutto dopo un fine settimana passato a pensare, personalmente, al saggio di Jonathan Crary, 24/7, il capitalismo all’assalto del sonno, pubblicato in Italia da Einaudi.

È una lettura consigliatissima, infatti, quella di Crary, che volevo usare per fare un post pensoso sulla polemica pasquale sullo shopping nei giorni di festa. Un brano di quel libro sarebbe stato perfetto per far bella figura e, scansando la compagnia di Luigi Di Maio, schierarmi contro la liberalizzazione degli orari di lavoro, invocando, se non un pentimento legislativo – che pure ci starebbe – almeno una maggiore responsabilità nei consumi, cosa che alla fine dipende solo da noi.

Ci servono tutte le cose che compriamo online e ci facciamo recapitare “in meno di 24 ore”? Siamo sicuri di dover proprio comprare a mezzanotte quel pugno di insalata, peraltro incartato in un chilo di plastica? Quell’ennesima magliettina a prezzo stracciato, un vero affare, ci piace tanto da sorvolare sulle condizioni di lavoro e la retribuzione di chi l’ha cucita? Eccetera, eccetera. Le domande retoriche che avrei messo in fila sarebbero state di questo tenore, ognuna utile per evocare un pezzo di una più generale sfida sul consumismo consapevole, che va dall’eccesso di carne nella dieta agli imballaggi di troppo, dal sostegno al commercio di prossimità alla qualità, ovviamente, del lavoro di chi produce, consegna o vende ciò che noi allegramente, e spesso superficialmente, consumiamo.

Domande a cui ognuno di noi – compatibilmente con le proprie disponibilità mentali, di tempo e di denaro (non voglio dilungarmi sui vantaggi economici di determinate attenzioni) – può ovviamente dare la risposta che reputa più giusta, sapendo però che siamo tutti su una stessa ruota – quella dell’iper lavoro e dell’iper consumo – e che qualcuno dovrà pur, a un certo punto, se non fermarla, almeno farla rallentare.

Il post però, alla fine, non l’ho fatto, preso da una sana pigrizia festiva (o meglio, sfinito dal traffico del ponte).

La frase di Hastings, però, mi permette di farlo adesso senza passare per quello che si accanisce. Crary, nel agile saggio pubblicato da Einaudi, racconta di farmaci che riducono il bisogno di sonno e di ricerche militari dalla sicura applicazione commerciale, snocciola statistiche sulle ore dormite dall’americano medio (dieci ore nel primo Novecento, sei e mezzo adesso), anticipa l’obiettivo confermato dal capo di Netflix: conquistato il nostro tempo libero – ormai prevalentemente votato al consumo e al lavoro, al lavoro e al consumo – il mercato ha puntato i nostri bioritmi, il nostro riposo.

E lo sta già conquistando: fateci caso. Perché non lavoriamo solo fino a tardi; fino a tardi, con l’iPad che ci illumina il cuscino di azzurro, siamo ad esempio sollecitati da pubblicità costruite sui nostri gusti e bisogni, irresistibili per il lavoratore che troverà lì magra consolazione alla condanna delle mail fuori dall’orario di lavoro.

Mi direte: nessuno ti obbliga a far shopping su Amazon a mezzanotte, e guardare un film, poi, è attività ricreativa. Vero. Però è vero anche che l’economia è un sistema. E negare che il consumo 24/7 sia tutt’uno con il lavoro 24/7 – con gli straordinari obbligatori, con la reperibilità non retribuita, con le partite Iva – è un po’ come darsi la zappa sui piedi.

Ecco: quello che avrei scritto a Pasqua e che scrivo oggi, è che l’apertura dei centri commerciali nei giorni di festa, se volete, è un simbolo ed ha quindi tutti i problemi delle battaglie simboliche, che possono sembrare pretestuose. Opporsi non serve però solo a ricordare che raramente il lavoratore – precario, stagionale, comunque “sostituibile” – può effettivamente scegliere se fare o meno lo straordinario; storcere il naso serve a evocare la sfida generale, che è forse la più urgente dei nostri giorni.

Il lavoro sta cambiando (come stanno cambiando i consumi) e il rischio è che sempre più ci sia chi lavora e consuma troppo, e viene comunque pagato poco, e chi lavora e consuma troppo poco. Buone leggi e buone pratiche (anche semplici, come quella, ad esempio, sul diritto alla disconnessione dopo l’orario di lavoro) servono a questo: contrastare la crescente disuguaglianza. Che rende infelici tutti, alla fine, salvo qualche amministratore delegato.

Sono nato a Roma, il 23 febbraio 1988. Vorrei vivere in Umbria, ma temo dovrò attendere la pensione. Nell'attesa mi sposto in bicicletta e indosso prevalentemente cravatte cucite da me. Per lavoro scrivo, soprattutto di politica (all'inizio inizio per il Riformista e gli Altri, poi per Pubblico, infine per l'Espresso e per Left) e quando capita di cultura. Ho anche fatto un po' di radio e di televisione. Per Castelvecchi ho scritto un libro, con il collega Matteo Marchetti, su Enrico Letta, lo zio Gianni e le larghe intese (anzi, "Le potenti intese", come avevamo azzardato nel titolo): per questo lavoro non siamo mai stati pagati, nonostante il contratto dicesse il contrario.