Giovanna Zangrandi era insegnante di scienze naturali e diventò staffetta partigiana in pochi giorni. “Cresciuta nel bolognese ma fuggita giovanissima tra le Dolomiti altoatesine”, ma la sua vita, scrive Marina Zancan nella prefazione al libro Giovanna Zangrandi, I giorni veri , pubblicato da Isbn , “ha una svolta improvvisa l’8 settembre del ’43, quando i nazisti annettono le province di Bolzano e Trento al Terzo Reich. Colta dall’urgenza di partecipare in prima persona alla lotta di Liberazione, si unisce alla Brigata partigiana Calvi e diventa un tassello fondamentale nel trasporto di informazioni, armi e documenti falsi, vivendo per quasi un anno nascosta nei boschi e tra le rocce”. Quando uscì questo suo prezioso e poetico dario nel febbraio 2012, per gentile concessione dell’editore Isbn ne pubblicammo su Left un estratto, che oggi, 25 aprile, vogliamo riproporre.
Tai, aprile 1945
Rombo di motori, quasi continuato, soprattutto di notte; per la via Statale vanno sempre più fitti carichi, verso il nord. È chiaro che la definitiva disfatta del Reich è incominciata, ma vanno ancora ordinati, armati e non bisogna sottovalutarli. Le nostre ora sono giornate dense, vissute sempre correndo per qualcosa, con tutti i sensi tesi. Ogni tanto, in qualche breve sosta, arriva come una zaffata, l’odore della terra bagnata, non più dura di gelo, l’odore dell’erba sottile e nuova. Nel brolo di Angela non solo il mandorlo lo soffia con i suoi tre fatidici fiori, ma pure i meli hanno certi spunzoni e Sergio ha detto: «Veh, mettono patrone di Mauser, anche loro».
Sono tuttavia cose ben da poco, che si vedono in fretta in questo tempo nebbioso e sciroccoso, strano, come se un tardivo inverno fosse malattia di anni che stenta a mollare la terra. Nelle notti si fa sagra con i chiodoni a tre punte, la cantina di Angela ne è tanto piena da poter ferire
a morte, in certe sere, quella specie di serpente fitto di mezzi ch’è la strada di Alemagna; e gli uomini sono in pochi, i comandanti mi hanno affidato questo notturno incarico: mi piace assai. Stasera ero stesa a fianco di Angela vestita. Nemmeno lei dormiva, inquieta e con ragione. Infatti stasera tutte le stradette alte della frazione sono piene di tedeschi, compagnie e carriaggi che si sono messe in retrovia tra frassini e sambuchi a prender fiato, a curare ferite e malattie: al Fadalto, tra Feltre e Belluno, combattono. I nostri li affrontano e disturbano o furiosamente li attaccano e combattono, soprattutto quando qualche comandante tedesco fanatico minaccia di distruggere impianti idroelettrici o industriali. Qui da noi c’è un’apparente quiete: mettono il campo alla sera, si aggrumano dove possono, qualcuno di loro vanta che faranno ancora una resistenza efficace al Brennero, di là sarà più facile «vincere».
Noi si tace e si guardano, come si fa con i lebbrosi: non toccarli, lascia che si allontanino e creperanno. Dal Brennero invece arrivano ormai i primi prigionieri nostri fuggiti all’inferno dei «lager», accennano vagamente a una Germania in débacle; ma è gente disfatta che ha poca forza per parlare, per loro si cerca disperatamente del latte, certuni pare non riescano a ingoiare altro. E hanno allucinati occhi, la magrezza, le zigomature, le orbite livide li fanno più pazzi e paurosi; certuni dicono che a sera andranno a uccider tedeschi, qualunque siano «dopo quello che gli hanno fatto». Allora si cerca di calmarli, a due più esaltati sono riuscita a sciogliere del «pandorm» nel vino e indurli a andare a dormire nel fienile, che non succedano complicazioni in questa santabarbara umana che è ora il villaggio, le case. Perché poi stasera io e Angela avevamo appena affondati nel fieno del rustico alcuni di costoro quando è arrivato Sergio e tutto il comando della Calvi, e altri, staffette delle vallate e personaggi mai visti: li abbiamo lasciati a lungo in cucina a fare piani e organizzazione per questi giorni definitivi. Ada, sacramentando, ha messo materassi per terra nella camera di Sergio al primo piano, in quei tre per quattro bisogna farci stendere una dozzina di persone e che dormano bene e siano riposati ed efficienti domani. Si sono ritirati verso l’una, io e Angela ci buttiamo vestite nell’altra camera sopra, al secondo piano e forse stavamo per dormire, nonostante tutto, quando un inferno di calci alla porta e vociare in tedesco squassa la casa. Angela è balzata a sedere e geme: «Ahi, stavolta è finita… è finita!». «No, perdio!» ho detto saltando su «Proviamo l’ultima, no! Sta calma.» Lei mi guarda incredula, mi affaccio alla finestra e dico a quelli lì là sotto: «Ick komme, ich komme; ein Moment». Sentir parlare in tedesco li ha calmati un po’. Mentre volo giù per la scala, dalla camera di Sergio affiora la canna bucata di un mitra, il viso glabro di Alberto e le sue, le altre mani piene di bombe. Soffio in fretta: «Zitti, dentro, chiudetevi; mettete quella roba sotto al culo; vado a contargli che la casa è piena di prigionieri scappati, matti». Gli occhi di Alberto si sgranano increduli come a
dire «se ci credono…». Ho aperta la porta, mi accorgo che sto parlando un certo tedesco assurdo, di origini letterarie, velocissimo, con desinenze che non mi importano più, ma i verbi rigorosamente in fondo e sto spiegando che tutta la casa è invasa, piena dai «Narren Gefangene aus Reich ausgeflogen, angekommen, schreklich, ganz narr sind sie». Piagnucolo che ci hanno quasi uccise; notte di pioggia e incerate lucide nel barlume di una pila, visi tirati, non sono rastrellatori, si vede, è una compagnia di Wehrmacht strinata e disfatta, fradicia; un vecchio pieno di odore strano si appoggia allo stipite e dice parole staccate, affannose: «Schlafen nass regnet». «Ja» ho detto. «Aber bleiben Sie ganz ruhig, mann muss leben ietz, Krieg beendet; die Gefangene sind nicht gut. Ruhig! Non svegliarli.» E certo loro sanno quel che gli hanno fatto nei «lager», mi credono e hanno paura. Questa afona sfinita voce qui nella corrusca notte: «Regnet, schlafen in dem Haus». «Ja, kommen Sie mit mir» dico prendendo una di quelle mani fradicie, un senso di schifo, ma forse solo per il bagnato.
«Kommen Sie.» Li ho infilati in cucina e nell’atrio a pianterreno, sono crollati a tappeto sotto al tavolo e dietro al fornello, si vede che quel vecchio ha la divisa bucata da pallottole, è ferito e puzza, abbiamo tirato un catino di acqua tiepida dalla vasca, si medica da solo un braccio e sospira: «Partisan in Pelluno… Ah, ietz… so spät: vielleicht Friede». Quando ha finito di fasciarsi quel braccio gli viene come una specie di sorriso, su quel visuccio da antico funzionario è una smorfia squallida e gli occhi che cercano dove dormire; gli altri russano ormai, non lo hanno nemmeno aiutato a medicarsi, russano egoisti o fiduciosi, da uno viene un rivolo di acqua rossastra, chissà dove è ferito, chissà nemmeno se lo sa. Ora il vecchio non ha più posto e nessuno gliene fa, nell’angolo dell’atrio sposto il cestone della tacchina, cerco di non far capire quanto è pesante, con le sipe sotto la cova; stendo un sacco e, mentre il vecchio si accomoda, sotto la tacchina si sente pio, pio. Sono nati, da poche ore certo, prima erano mancora uova, due pulcini sbucano dalle penne, giallini, li ho indicati al vecchio, ho pregato di non toccare; lui sorride, stavolta ci riesce meglio e dice: «Oh, sì, pampìni, mia figlia ha due piccoli così. Oh schöne! Vielleicht Friede…». Ha assicurato che non disturberanno il cestone e si arrotola e appesantisce il respiro fiducioso, là dietro la cova, la strana cova del nostro tempo di primavera…..