Dico io, si può fare un film con una che muore di stanchezza per quanto lavora? è un vero pugno in faccia allo spettatore. Lo chiedo a Daniele Vicari, dopo aver visto il suo ultimo film Sole, cuore, amore, mentre gli cucino un piatto di orecchiette

In questi giorni esce nelle sale cinematografiche l’ultimo film di Daniele Vicari “Sole, Cuore, Amore” con Isabella Ragonese e Francesco Montanari. Di cosa parla? Del lavoro: quello che non c’è, quello che non conosce più diritti, quello che a volte uccide, per stanchezza. Per l’occasione vi riproponiamo l’intervista di Don Pasta al regista comparsa sul numero 44 di Left.

Lo aspettavo a casa con melanzane sott’olio e orecchiette con le rape. Daniele Vicari è un grande amante della cucina popolare e del mio Salento. La prima domanda me la fa lui guardandomi negli occhi, severo: «Da amico a amico, il film ti è piaciuto?». Non posso che rispondere con franchezza: «Lo trovo un film coraggioso nel tema, nella drammaturgia e nella scelta stilistica. Ma non capisco il secondo personaggio femminile. Lo trovo debole, di fronte all’importanza, anche simbolica, della protagonista, che lavora come una schiava e muore di stanchezza». Dopo le muffettate, dolce salentino antichissimo, passo io all’attacco.
Sei uno precisissimo, attento a ogni particolare, fai un film ogni cinque anni, mi domando se non l’hai fatto apposta a provocare lo spettatore, come con Diaz. Dico io, si può finire un film con una che muore di stanchezza? M’è venuta una tristezza… Che poi paradossalmente in Diaz hai fatto di tutto, con delicatezza, per rendere digesto l’indigeribile di quella violenza. Qui dai un pugno in faccia allo spettatore. È un atto voluto?
I film perfetti o imperfetti che siano, quando sono vivi, non portano mai all’unanimità di giudizio. Sole cuore amore è un film che puoi amare o può farti incazzare, ma non è un film consolatorio. Non lo è sul piano formale e nemmeno su quello dei contenuti. L’ho scritto in tre giorni, girato in 25. Mi sono buttato. Non è una provocazione, però è vero che ci sono delle scelte che vanno contro il senso comune dello spettatore. È un atto unico di 1 ora e 50. Rallenta progressivamente anziché accelerare, ha due protagoniste che sono due antieroine ma opposte, una “calda” e l’altra “fredda”, una ha una famiglia numerosa e l’altra è sola.
Di fondo il film ha a che fare con le vittime della società occidentale. Mi pare si ponga la questione di identificare chi e dove si trovi il cattivo e cosa fanno i buoni per resistere, per ribellarsi. Ma non ne esce fuori un ritratto ottimistico.
Ho cercato di raccontare la frammentarietà che viviamo. Questo modo di vivere è drammatico, ci mette in disequilibrio. È incredibile ma in Occidente si può morire di fatica, altro che società opulenta. Come è capitato alla pugliese Paola Clemente e, prima di lei, alla romana Isabella Viola. Non è propriamente un morire di lavoro, è tutto il meccanismo in cui siamo immersi che è schiacciante, inadatto agli esseri umani. Il modo in cui è organizzata la società è totalmente folle. Se, per esempio, passi una parte fondamentale della tua vita sui mezzi pubblici, quello è tempo di vita sprecato, bruciato. Ok, la protagonista si riposa quando sta sull’autobus, ma è un riposo nevrotico, insano.
I personaggi sono entrambi femminili. Mi pare altamente metaforico il fatto che tu voglia mostrare come questo “indefinibile” meccanismo si eserciti di più sulle donne. Ma la protagonista non poteva evitare di fare quattro figli?
Mia sorella ha tre figli, e sono partito da lei per scrivere la sceneggiatura. Mentre scrivevo è morta Paola Clemente, foggiana con tre figli, Isabella Viola ne aveva 4… Eli, la mia protagonista, ha fatto una scelta centrata: 4 figli, un marito, due lavori, come da tradizione. Poi il marito viene licenziato e resta lei sola a lavorare. Ecco che i 4 figli diventano una “colpa”. Non mi pare il massimo, chi pensa che sia una colpa non capisce che se vivi in una determinata condizione sociale la tua forza diventa debolezza in un attimo, perché il meccanismo sociale è più forte di te. Infatti Eli (come mia sorella) non si cura pur di andare a lavorare. Tira la corda fino a romperla. Sono soprattutto le donne che vivono queste sofferenze. Se ti capita di prendere l’autobus da Nettuno la mattina, per il 90 per cento ci sono donne italiane e straniere che vanno in città, sono impiegate, fanno le pulizie, accudiscono le persone. Da molti anni le giovani coppie vivono fuori città perché non hanno un salario sufficiente. E una donna che gestisce la famiglia ma ha anche una vita fuori dalle mura di casa, si carica di una quantità di responsabilità e di tensione che noi uomini facciamo fatica a cogliere. Non riusciamo a entrare dentro questo sentire femminile. Siamo ottusi.
Ma la protagonista non poteva evitare di fare quella fine? Perché non si ribella?
La nostra non è una società conflittuale, è autolesionistica, la rivolta non c’è, e nemmeno la percezione dei diritti, da qui si genera la tragedia, non il melodramma. È per questo che io rifiuto il melodramma come esaltazione delle passioni primarie, preferisco rappresentare la condizione dei protagonisti, nella sua durezza. Eli deve portare a casa la pagnotta e fa una fatica bestiale. Di chi è la colpa? Del proprietario del bar in cui lavora? Ma anche lui è schiavo di un meccanismo, è un padrone immiserito. Non siamo più in Fronte del porto. Se avessi fatto una cosa del genere (la storia di un conflitto sindacale) avrei fatto una cosa consolatoria, avrei trovato un colpevole, rilasciato un certificato di conversione e tutti contenti. Io invece spero che lo spettatore non si identifichi in un personaggio, ma in una “condizione”. Questo ingenera frustrazione, ma una frustrazione “sana”, che spero lavori dentro le persone che vedono il film.
Veniamo alla coprotagonista. Mi dici che è una ribelle, allora me l’aspetterei radiante, sicura di sé, allegra. Hai disegnato un ritratto di una donna incerta, malinconica. È un antieroe, capisci che non ci faciliti la lettura del film così…
Vale non è una ribelle, ha solo deciso di essere completamente fuori dal mercato, dal sistema, dalla famiglia, dal “lavoro produttivo”, è un nuovo tipo antropologico. Non ha punti di riferimento, l’unico è la sua amica Eli. La loro è una “sorellanza”. Vale probabilmente ce la farà a resistere, perché è la modernità fatta persona. Sottrae il suo corpo dal meccanismo produttivo, accetta l’idea che il conflitto sia “sopra di noi” e segue una strada individuale per “rivoltarsi”. Non si carica delle fatiche estreme di cui si carica Eli, rifiuta questa forma di organizzazione sociale. Nella sua rivolta, che è intima e quotidiana, diventa la chiave, perché si sottrae a ogni forma di potere e dice “io sono mia”. È un personaggio ispirato a una cara amica, Miriam, che è il prototipo di questa donna nuova. Chiaro che una scelta del genere ha un costo, perché se prendi questa strada la devi percorrere fino in fondo, sei piena di incertezze, cambi la percezione che hai di te, sessualità compresa.
Di fondo tu sei come quella ribelle. Non trovi spazio negli spazi angusti del potere e te lo cerchi altrove, tentennando, pronto a sbagliare anche. È questo che volevi dire? Ora capisco il ruolo nel film, però mi ci sono volute due ore di conversazione.
Se davvero è così, sono io che ho sbagliato… oppure tu l’hai rifiutato. Io non faccio cinema come atto di coraggio, cerco solo di raccontare cose che mi toccano. Se non c’è lo spazio per fare questo, semplicemente faccio altro. Calvino diceva «scriviamo per uno scaffale ipotetico, per un ipotetico lettore». Qualcuno pensa che io sia “ideologico” perché tratto certi temi. Ma rifiuto questa etichetta, per me l’unica cosa che conta è essere lontano dal potere. In Sole cuore amore il potere sta fuori dall’inquadratura, nel film non c’è la Roma monumentale, per esempio. È nel modo in cui è strutturata la società e la direzione che prende la storia che si rivela il potere, nel fatto che una donna muore perché è costretta a lavorare 7 giorni su 7, con uno stipendio ridicolo, passando 4 ore al giorno su un autobus che spesso si rompe solo per arrivarci. Penso che non ci rendiamo conto di ciò che sta succedendo, che stiamo sottovalutando una serie di crepe della nostra società. Se leggo sul giornale che una donna è morta in metro di stanchezza, madre di quattro figli, io devo guardare dentro questo “fatto di cronaca”. E se mi devo scontrare con mister “tastiera d’oro”, mi ci scontro. Mi assumo la responsabilità dei miei errori. Facciamo così, prendi il mio film come una preghiera laica, fatta prima di tutto a me stesso. Mi dico: guarda, apri gli occhi, altrimenti vai a sbattere. E invece voglio fermarmi in tempo.